martedì 1 dicembre 2009


tutti i graffiti palestinesi riproducono la rappresentazione delle immutate rivendicazioni territoriali: lo stato di Israele risulta cancellato

Non è (mai) abbastanza

Da un editoriale del Jerusalem Post
Con la pazienza di un taxista allo scatto del semaforo verde, la dirigenza palestinese si è precipitata a reagire alla moratoria delle nuove costruzioni negli insediamenti di Cisgiordania, annunciata mercoledì dal governo israeliano, con un chiaro e netto “Non è abbastanza!”.Il congelamento senza precedenti deciso dal governo del primo ministro Benjamin Netanyahu è sia sostanziale che simbolico: è l’appropriata risposta alla richiesta di blocco da parte palestinese, che è però di facciata e uno specchietto per allodole.Il contenzioso fra palestinesi e israeliani non è sugli insediamenti. Esso verte sulla disponibilità o meno degli arabi a riconoscere la legittimità di Israele come Stato del popolo ebraico all’interno di qualsivoglia confine. C’è chi trova più confortevole immaginare che lo scontro fra causa sionista e causa araba abbia perso la sua caratteristica di gioco che non è più a somma zero (quello cioè dove tanto vince uno, tanto perde l’altro). Ma non è certo così che la vede la maggior parte degli israeliani.Nel 1920 la comunità internazionale assegnò alla Gran Bretagna la responsabilità di istituire una “sede nazionale” per il popolo ebraico in Palestina (o Terra d’Israele). Ma un anno dopo Londra consegnò tutta la Palestina orientale (a est del fiume Giordano) all’emiro Abdullah, e così nacque la Transgiordania (oggi Giordania). La reazione araba? “Non è abbastanza”.Nel 1937 la Commissione Peel raccomandò di dividere la Palestina (sotto Mandato britannico) in due Stati, uno ebraico e uno arabo. I sionisti acconsentirono. Gli arabi dissero: no.Nel 1947 l’Assemblea Generale dell’Onu votò la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Di nuovo, gli ebrei accettarono. Gli arabi risposero: “Non è abbastanza”, e cercarono di strangolare il neonato Stato ebraico. Israele si difese e sopravvisse, mentre gli arabi prendevano il controllo di Cisgiordania e striscia di Gaza. Vi crearono uno Stato palestinese? Naturalmente no, perché quei territori da soli non erano “abbastanza”.Nel 1967 tentarono di gettare a mare un Israele che viveva all’interno delle linee armistiziali del 1949 (la Linea Verde); ma fallirono e la Cisgiordania – fra l’altro – finì sotto il controllo israeliano. Magnanimi nella vittoria, gli israeliani offrirono di fare la pace. La risposta araba? “No alla pace, no al riconoscimento di Israele, no a negoziati con Israele” (summit arabo di Khartoum del 29.08-1.09.67).Nel 1977 il presidente egiziano Anwar Sadat imboccò coraggiosamente la strada della pace. Israele si ritirò da tutti i territori rivendicati dall’Egitto e, oltre a ciò, Menachem Begin offrì ai palestinesi qualcosa che fino ad allora non avevano mai avuto in tutta la loro storia: l’autonomia politica. Le forze israeliane sarebbero state riposizionate come preludio a negoziati sullo status definitivo. La reazione araba? “Non è abbastanza” (e fu il “Fronte del rifiuto”).Grazie agli Accordi di Oslo del 1993, la dirigenza dell’Olp venne invitata a rientrare da Tunisi per istituire un’Autorità Palestinese in Cisgiordania e striscia di Gaza. Ma il subdolo Yasser Arafat non abbracciò mai davvero questa storica opportunità di riconciliazione. E Hamas intensificava la sua campagna terroristica, che mieteva vite israeliane a decine (ben prima del massacro di Baruch Goldstein a Hebron del febbraio ’94). Ehud Barak per due volte – a Camp David nel luglio 2000 e a Taba nel gennaio 2001 – offrì ad Arafat uno Stato palestinese accompagnato da concessioni territoriali e politiche senza precedenti. La risposta araba? “Non è abbastanza”.Quando Israele ritirò unilateralmente tutti i suoi soldati e civili (“coloni”) dalla striscia di Gaza nell’estate 2005, gli arabi dissero di nuovo: “Non è abbastanza” (e furono altri attentati, e razzi, e sequestri di ostaggi).Nel 2008, Ehud Olmert offrì a Mahmoud Abbas (Abu Mazen) il 93% della Cisgiordania più altro territorio tolto a Israele. Abu Mazen non rispose nemmeno “non è abbastanza”: semplicemente se ne andò senza rispondere.Poi Netanyahu, nel giugno di quest’anno, sulle orme dei suoi predecessori dichiarò in modo inequivocabile che accettava uno Stato palestinese smilitarizzato. La risposta araba? “Non è abbastanza”.Una generazione dopo l’altra, un decennio dopo l’altro, una concessione israeliana dopo l’altra i palestinesi non hanno mai perso un’occasione di dire: “Non è abbastanza” (compreso il congelamento degli insediamenti di settimana scorsa).Così adesso la domanda è: cosa farà l’America? L’inviato speciale George Mitchell ha reagito con una tiepida approvazione della moratoria di Netanyahu. “Non è ancora il congelamento completo degli insediamenti – ha detto – ma è più di quanto qualunque governo israeliano abbia mai fatto prima d’ora”; per poi annacquare questo pallido encomio ribadendo con distacco che comunque “l’America non riconosce legittimità ai perduranti insediamenti israeliani”.Una reazione leggermente più positiva è arrivata dal segretario di stato Usa Hillary Clinton, la quale ha riconosciuto che “scambi concordati” (di territorio) dovrebbero rientrare nei negoziati basati sulle linee del ’67.Se gli israeliani devono assumersi ancora altri rischi per la pace, devono essere perlomeno sicuri che l’amministrazione Obama sostiene pienamente la formula “1967-più qualcosa”. Occorre che Washington persuada Abu Mazen a tornare al tavolo negoziale a trattare in buona fede, e che ottenga dai paesi arabi suoi alleati dei concreti gesti diplomatici in cambio delle concessioni di Gerusalemme. Altrimenti il messaggio sconfortante che arriva agli israeliani che vorrebbero un accordo è che qualunque cosa faranno sarà sempre “non ancora” quello che vuole questa amministrazione Usa, e certamente mai “abbastanza” per i vicini arabi.(Da: Jerusalem Post, 27.11.09)http://www.israele.net/

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