giovedì 10 dicembre 2009



Yoram Ortona

Ortona, una storia dietro ai cimeli

Non è inconsueto tra le famiglie ebraiche trovare radici che affondano in tanti luoghi diversi. La storia degli ebrei italiani originari della Libia, è una storia speciale, e la nuova sala del Museo Ebraico di Roma, che si inaugura oggi, si propone di rendere omaggio a quella comunità che era un po’ italiana ancora prima di giungere in Italia, ma che, non bisogna dimenticare, fu sradicata a forza da un paese in cui viveva da secoli. Alcuni cimeli racchiudono la storia della famiglia Ortona. Originari di Casale Monferrato, dopo un periodo a Tunisi, gli Ortona si trasferirono a Tripoli nel 1908. Là Federico Ortona si sposò e nel 1922 nacque Marcello, padre di Yoram, Giorgio e Marina, che hanno donato gli oggetti esposti nella nuova sala. Quando nel 1938 furono promulgate le Leggi Razziali, Marcello Ortona, che frequentava il ginnasio all’istituto Dante Alighieri di Tripoli, fu espulso da scuola e riparò a Tunisi, presso lo zio Cesarino, fratello di suo padre, che era direttore dell’Ospedale italiano della città. Poco tempo dopo, la politica razziale giunse anche nelle istituzioni italiane in Tunisia, Cesarino Ortona fu destituito dall’incarico, e privato di tutte le onorificenze che aveva conquistato nella sua vita. Non potè sopportare la disperazione e si suicidò.“Nel 1941 mio padre Marcello, conclusi gli studi, tornò in Libia - racconta Yoram Ortona (nell'immagine) - Era un momento terribile. Lui e altri undici compagni vennero precettati e condotti in un campo di lavoro a Sidi Azaz, in Cirenaica, costretti ai lavori forzati. Nel frattempo la Guerra proseguiva. Quando finalmente i tedeschi furono sconfitti in Africa nel 1943, il campo fu liberato. Ma bisognava ancora tornare fino a Tripoli”. E a questo punto, Yoram narra uno degli episodi che il padre ricordava più volentieri tra i racconti di guerra. “Tripoli era distante centinaia di chilometri. La strada attraversava il deserto ed era piena di insidie. Mio padre e il suo amico Aronne si incamminarono sperando di trovare qualcuno che potesse dare loro un passaggio. Si imbatterono in una Volkswagen guidata da un ufficiale della Wermacht in ritirata. Fingendosi tecnici italiani riuscirono a farsi prendere a bordo e così giunsero a destinazione sani e salvi”.Tornato in città Marcello Ortona trovò lavoro al Corriere di Tripoli, appena fondato dai liberatori inglesi e diretto da Ralph Merryll, nome d’arte di Renato Mieli, padre di Paolo (storico direttore del Corriere della Sera ndr). Quando “Ralph Merryll” tornò in Italia, alla fine della guerra, dove fondò l’Ansa e poi diresse l’Unità, Marcello Ortona, a soli ventitre anni, gli subentrò, diventando direttore del più importante quotidiano di lingua italiana in Libia. Una copia del giornale è stata donata al Museo, insieme al suo tesserino di riconoscimento. Ma la sua gioia durò poco. Solo tre giorni dopo, il 4 novembre 1945, si scatenò il primo pogrom antiebraico del paese, dopo secoli di convivenza pacifica. Trecento ebrei furono assassinati, le sinagoghe date alle fiamme, i cimiteri profanati. Dei 40 mila ebrei che vivevano in Libia nel 1945, ne ritroviamo solo seimila dopo il 1948. Tra questi proprio Marcello Ortona, che rimase al suo posto al Corriere di Tripoli e il 7 dicembre 1952 sposò la bellissima Doris Journo, che era stata Miss Maccabi nel 1949, come mostrano la foto e la fascia esposte nella nuova sala del Museo.La vita per gli ebrei libici proseguì relativamente tranquilla, nonostante frequenti disordini, fino al 1967. “Fino a quel momento non c’erano più stati episodi così gravi, soprattutto perché gli ebrei si erano organizzati per difendersi – ricorda Yoram – ma non potrò mai dimenticare quella mattina del 5 giugno 1967”. Aveva quattordici anni, e stava sostenendo l’esame di Licenza Media in quello stesso istituto Dante Alighieri che il padre era stato costretto ad abbandonare nel 1938. “Quando, nel bel mezzo del tema di italiano, ci vennero a dire di lasciare tutto e correre a casa, io mi rifugiai da un amico – prosegue - C’era un sole splendido quel giorno, ma prima dell’ora di pranzo il cielo di Tripoli si fece nero di cenere e fumo. La folla era inferocita. I miei fratellini erano all’asilo dalle suore, mia madre sola in casa, mio padre in ufficio. Solo a sera ci ritrovammo. Per dodici giorni rimanemmo barricati in casa. Poi, finalmente, riuscimmo a trovare quattro posti su un Caravelle dell’Alitalia per fuggire a Roma, con due valige e venti sterline libiche, e mio padre che teneva la mia sorellina sulle ginocchia”. Morirono diciassette persone, due intere famiglie trucidate, e migliaia furono costrette a lasciare la propria casa, gli averi, una vita intera. “Faccio fatica a trattenere le lacrime ricordando quelle ore. Sono grato ai miei genitori per tutto quello che hanno fatto per me, e sono particolarmente felice che venga rivolto loro un ricordo, soprattutto in questi giorni che ricorre il loro anniversario di nozze (il 7 dicembre ndr)”.Rossella Tercatin, http://www.moked.it/

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