venerdì 22 gennaio 2010


Le gran signore che facevano sognare

Da qualche tempo, dentro il mondo ebraico, è maturato un interesse intorno alle “scritture bambine”. Se osservato dall’interno il fenomeno sembrerebbe rafforzare il paradosso di Yerushalmi. Lo scoglio dell’emancipazione ha prodotto una memoria incardinata nella pedagogia ebraica (mi-dòr ledòr, di generazione in generazione). Dalla scuola i bambini non devono essere tolti “neppure per la costruzione del Tempio”, insegna il Talmud. Quali fossero però le fantasie di questi bambini non lo sappiamo. Sappiamo del fascino esercitato da alcuni episodi biblici (la crudeltà è un aspetto dell’infanzia: la testa di Oloferne tenuta in mano da Giuditta, le orecchie di Amanno), ma non sappiamo con quali occhi giudicassero la trasformazione antropologica che l’eguaglianza aveva prodotto, né disponiamo di fondi archivistici che altre culture europee posseggono (Mont-Saint- Agnan presso Rouen, in Francia; i family magazines). Nelle soffitte ebraiche italiane è raro trovare qualcosa che assomigli a tutto ciò, si ha l’impressione che l’età anteriore al bar mitzvà, anche dopo l’emancipazione, sia stato un continente da attraversarsi a passo rapido. All’archetipo greco-latino del poeta ut puer fa riscontro la figura ebraica del puer senex, che è come dire il primo della classe, il bambino prodigio. A un’analisi meno superficiale le cose si configurano diversamente, almeno per quanto concerne il periodo che precede la Grande Guerra. Uno dei settori in cui “il senso della famiglia”, che Nello Rosselli indicherà nel famoso discorso di Livorno del 1924 come costitutivo della sua identità ebraica, è proprio la letteratura per l’infanzia. Capita che il fenomeno della secolarizzazione, accanto a vistose forme di assimilazione, si fermi davanti ad alcuni nuclei culturali forti, dove la memoria ebraica, pur laicizzandosi, si tramanda. Per parafrasare il titolo di una delle ultime discendenti di questa tradizione, Elsa Morante, il mondo ebraico pare salvato da mamme che inventano storie per i loro ragazzini. Non è un luogo comune, ma un capitolo concreto di storia della letteratura italiana. Vorrei limitarmi a una breve rassegna di nomi e di titoli. Il “Corrierino dei Piccoli” era stato progettato da una delle figlie di Cesare Lombroso, Paola, Zia Mariù come amava firmarsi. Il Corriere dei grandi, sotto la direzione di Albertini, si approprierà poi della sua creatura in certa misura disebreizzandola. Sono soprattutto donne a delimitare il territorio, naturalmente con eccezioni. Anche vistose. Dante Lattes aveva un fratello che si chiamava Guglielmo, che un anno dopo la fondazione del Corrierino, si cimentò in una impresa non meno ambiziosa: emulare De Amicis e scrivere un Cuore d’Israele (1908). Della scrittura bambina ebraico-italiana è importante in primo luogo il tema del linguaggio, con apice indiscusso nell’indimenticabile refrain di Natalia Ginzburg nel Lessico famigliare: il baco del calo del malo, il beco del chelo del melo… Una riflessione importante sulla filosofia del linguaggio bambino hanno le storie di Totò, inventate da Giorgio Fano, con illustrazioni di un giovane Sergio Tofano, ma domina la poetica del fanciullino di Pascoli e l’eredità di Collodi e Vamba si percepisce nell’esperimento educativo della sorella di Paola Lombroso, Gina, protagonista della scuola per i bambini del popolo la Casa del Sole (1930) e nelle sue “commedie” di Leo e Nina dedicate ai figlioli (1916). Si firmava Cordelia, per scrivere di Curpiddu, Virginia Tedeschi Treves, mentre a Trieste folleggiava come Haydée, Ida Finzi, nota per il suo irredentismo e per I bambini di San Giusto. E poi Lina Schwarz, Luisa Cohen Enriquez. E dopo la pubblicazione delle corrispondenze famigliari, come dimenticare il Tupinino, personaggio uscito dalla fantasia di Amelia Rosselli creato per rallegrare l’infanzia dei due fratelli, Nello e Carlo. Quei figli e nipoti di Zia Mariù diventati adulti saranno, ebraicamente parlando, degli agnostici Zeno, un po’ nevrotici, ma pronti a scrivere favole per i propri figli ricche di humour ebraico. Meglio di ogni altra narratrice, la Morante, da Arturo a Useppe de La storia, ha saputo descrivere i problemi connessi al passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Marta Minerbi Ottolenghi si situa esattamente lungo questo crinale. Nata a Quarto di Genova nel 1895, la Ottolenghi Minerbi svolse l’intera sua carriera nel mondo della scuola come insegnante e poi direttrice didattica a Mogliano Veneto nel 1936. Dopo la guerra, che le aveva portato via il marito deportato in Germania, si dedica ai bambini, cercando di spiegare loro che cosa è stata la guerra e la Resistenza: O partigiano portami via (1965) è il titolo che la renderà famigliare a un pubblico più vasto, ma nella memoria ebraica italiana, specialmente torinese, il suo nome va associato a Ninìn bimbo felice (1956), che rappresenta l’antefatto dei diari di Emanuele Artom, da poco ristampati in edizione critica, a cura di G. Schwarz (Diari di un partigiano ebreo, 2008). Avvalendosi dell’aiuto della madre dei due bambini, Amalia Artom, la Minerbi ci ha regalato qualche cosa di più. Di Ennio sono le favole e i disegni, che rinviano alle illustrazioni della prima edizione del Giornalino di Gian Burrasca. Attraverso la prosa nitida della Ottolenghi cogliamo gli aspetti dell’educazione ebraica alla libertà, alla serietà del lavoro intellettuale, ma anche l’amore per la matematica, il senso dell’umorismo nella Storia di un balbuziente (metafora della diversità). Nulla di crepuscolare o di lacrimoso: la forza di questa autrice è nella sobria pietà.
Albertro Cavaglion, Pagine Ebraiche, febbraio 2010

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