mercoledì 13 gennaio 2010



Shivà, di Ronit e Shlomi Elkabetz

Scritto e diretto dalla star israeliana Ronit Elkabetz insieme al fratello Shlomi, Shivà racconta la storia della famiglia Ohayam in lutto per la morte dell’amato Maurice.La tradizione ebraica prescrive un periodo di lutto di sette giorni durante il quale la famiglia vive sotto lo stesso tetto, prega e riceve gli ospiti.Rinchiusi nello spazio fisico sigillato della casa di Maurice con gli specchi e i quadri coperti, gli Ohayam perdono, in poco tempo, il senso del loro essere lì, si concentrano sui loro problemi personali e producono, così, tensioni che porteranno a una sorta di resa dei conti finale tra tutti.Haim, il titolare dell’azienda che ha dato lavoro e benessere a tutta la famiglia, rischia il fallimento; Meir è in corsa per diventare il sindaco di Kiriat Yam; Simona non parla con nessuno mentre Vivianne cerca continuamente di evitare l’ex marito Eliyahu che non vuole darle il get, il divorzio. Ilana piange la morte del marito ed Evelyn cerca di attirare l’attenzione di Ben Lulu, un amico della famiglia. Su tutti troneggia la figura dell’anziana madre che, in silenzio, osserva e compatisce i figli. Girato in maniera asciutta (inquadrature fisse e assenza di musica) con un cast in stato di grazia composto da nomi noti del cinema israeliano (oltre a Elkabetz, Yael Abecassis…) il film possiede decisamente una qualità teatrale; è come se vedessimo una serie di scene teatrali in successione. C’è anche la presenza di un gruppo di anziane donne che, come il coro della tragedia greca, si rivolgono direttamente agli spettatori per commentarne l’azione. Film che raccontano di individui costretti in spazi chiusi rappresentano un vero e proprio genere. L’israeliano Lebanon, vincitore del Leone d’Oro a Venezia, è la storia di sei soldati israeliani rinchiusi in un tank. Lifeboat di Hitchcock si sviluppa interamente sopra una barca di salvataggio in mezzo all’Oceano; Laurence Kasdan ne Il Grande Freddo filma, in una grande casa, l’incontro di un gruppo di vecchi amici dopo la morte di uno di loro.L’escamotage narrativo dello spazio limitato permette di mostrare i personaggi senza la maschera del loro ruolo sociale, costretti a confrontare se stessi e gli altri fino all’ultimo. In Shivà lo spazio chiuso è disturbato continuamente dai bombardamenti degli ccud irakeni della Prima Guerra del Golfo.La realtà dello Stato ebraico si fa sentire nella composizione della famiglia Ohayam, un microcosmo della società israeliana: la famiglia è composta da Sephardim Marocchini ed Irakeni e Ashkenazim di origine tedesca che parlano ebraico, arabo, francese e tedesco. L’azienda di famiglia è stata creata con i soldi delle riparazioni del governo tedesco. Le tensioni interfamiliari diventano, così, una metafora delle tensioni che percorrono Israele.È la vecchia madre, simbolo della tradizione, a ristabilire l’ordine nel gruppo: la shivà diventa, così, il momento della riaffermazione dell’identità.Nella scena finale che si svolge significativamente nel cimitero, luogo della scena iniziale del film, la famiglia marcia insieme, unita, verso la macchina da presa per la prima volta in movimento. Il periodo della shiva è terminato e la transizione verso una nuova fase nella vita degli Ohamayan è compiuta.Rocco Giansante, http://www.moked.it/

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