sabato 20 marzo 2010


Gerusalemme

L'ira palestinese barricate contro la polizia
la Repubblica del 17 marzo 2010 di Alberto Stabile
È stata una giornata di scontri, di sassaiole, di barricate, come se fosse l'alba di una nuova intifada. Da un lato, gruppi di giovani palestinesi armati di pietre, il volto coperto dalle kefiah, che hanno raccolto l'appello del Movimento islamico, Hamas, a mobilitarsi per una sorta di «dies irae» in difesa della Gerusalemme araba contro la continua espansione della Gerusalemme ebraica. Dall'altro, le forze di sicurezza israeliane decise a mantenere sotto il loro controllo ogni angolo della città vecchia. Alla fine si contano una quarantina di arresti e una sessantina di feriti, tutti leggeri. Percorrendo il campo di battaglia quando gli ultimi fuochi andavano spegnendosi, il capo della Polizia israeliana, David Cohen, ha escluso che gli incidenti avessero segnato il debutto di una nuova rivolta popolare, una terza intifada. Forse, anche al capo della polizia sono giunte all'orecchio le voci secondo cui l'Autorità palestinese, per distanziarsi da Hamas, avrebbe deciso di non estendere l'incendio alla Cisgiordania. E tuttavia la tensione crescente a Gerusalemme non può non preoccupare. Quello di ieri è stato il quinto giorno consecutivo di disordini, a causa dei quali le autorità israeliane hanno deciso di prorogare fino al prossimo fine settimana la chiusura dei Territori in vigore da venerdì scorso. Ma i motivi di apprensione non derivano soltanto dal termometro dell'ordine pubblico. Il contesto politico non è per nulla incoraggiante. La grave crisi di fiducia esplosa tra l'Amministrazione americana e il governo israeliano ha spinto ieri l'inviato di Obama, il senatore George Mitchell, a rinviare il viaggio che avrebbe dovuto portarlo in Israele per tentare di riallacciare i fili del dialogo. A giustificazione del rinvio, fonti dell'Amministrazione hanno menzionato non meglio precisati «problemi logistici» che, se Mitchell fosse venuto in Israele, gli avrebbero impedito di partecipare alla riunione del Quartetto degli sponsor del processo di pace fissata per venerdì a Mosca. In realtà, Washington non deve aver gradito le parole con cui Netanyahu, parlando alla Knesset, ha respinto la richiesta americana di accantonare i progetti di espansione nelle aree contese di Gerusalemme est. Davanti ad un simile atteggiamento di chiusura, contro cui i palestinesi hanno opposto analoga chiusura, Mitchell ha annullato la visita. Siparietto americano. A margine dell'incontro con il ministro degli Esteri irlandese, Michael Martin, Hillary Clinton ha ribadito «lo stretto, incrollabile legame» tra Stati Uniti e Israele», ma ha poi aggiunto che «sono in corso consultazioni congli israeliani sulle misure da prendere per manifestare il loro impegno nei confronti del processo di pace». In serata è arrivata la risposta del premier attraverso il suo ufficio. «Netanyahu - è scritto - ha dimostrato con le parole e nei fatti il suo impegno per la pace». Il Dipartimento di Stato aspetta da Netanyahu una risposta alle quattro condizioni poste al premier israeliano per uscire dalla crisi. E cioè: l'annullamento della decisione di costruire altre 1600 case nel quartiere ultraortodosso di Ramat Shlomo; l'adozione di misure per ristabilire la fiducia verso l'autorità palestinese (si parla della liberazione di alcuni detenuti); la messa in atto di meccanismi che impediscano il ripetersi di un pasticcio come quello combinato dal ministro perla casa, Yishai durante la visita di Biden. E infine, l'impegno che i «colloqui indiretti» coi palestinesi vertano sulle grandi questioni aperte (i confini, il futuro di Gerusalemme, i rifugiati) e non su dettagli tecnici. Avrà Netanyahu la capacità rispondere in modo soddisfacente alle richieste dell'alleato americano senza rischiare il disfacimento della coalizione di governo? Sarà in grado, il premier, di far digerire alle forze estremiste e nazionaliste che fanno parte della maggioranza, inclusa la fazione più oltranzista del Likud, misure che oggettivamente cozzano contro il loro credo ideologico e, come gli ha prontamente ricordato il ministro degli Esteri, Liebermann, contro gli accordi di coalizione?

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