sabato 27 marzo 2010


Rassegna stampa

Come dobbiamo interpretare la crisi che in queste ultime settimane sembra agitare duramente i rapporti tra Israele e Stati Uniti? Il preludio ad una revisione sostanziale delle relazioni privilegiate tra i due paesi, e quindi la rottura di un asse strategico, oppure una tempesta in un bicchiere d’acqua? Con tutta probabilità non si tratta né dell’uno né dell’altro caso. Partiamo dagli articoli di Meron Rapoport su l’Espresso e dell’Osservatore romano per avanzare qualche considerazione. Se l’autore del primo servizio si esprime in toni piuttosto netti, rilevando quante siano le cautele che vanno nutrite nel formulare dei giudizi, ma anche quali possano essere, non di meno, i dubbi, sulla tenuta di saldi legami tra Washington e Gerusalemme, rimane il fatto che è difficile sostenere che si sia all’alba di una nuova era politica. Ben lontani, quindi, dal celebrare un divorzio che invece, maliziosamente, certuni vorrebbero prefigurare come uno dei possibili esiti. Certo, se è vero quello che riporta la Stampa, sia pure a titolo di gossip politico, ossia che Obama avrebbe seccamente interrotto il colloquio con Netanyahu, dicendo di volere andare a cenare con sua moglie Michelle, ciò sarebbe il segno di una frizione abbastanza evidente, quanto meno tra i due uomini. Che non si amino, peraltro, parrebbe a questo punto sufficientemente chiaro. A ciò si aggiungono – e qui si tratta di segnali ben più corposi – l’assenza di comunicati congiunti e la mancata ottemperanza a quelle consuetudini del cerimoniale diplomatico (foto, conferenze stampa e così via) che corredano gli incontri andati a buon fine. Piccoli segni di un qualcosa di ben più grande e quindi preoccupante? Chi conosce la storia diplomatica sa quante siano state, anche in un passato recente, le frizioni tra le due capitali. Solo una lettura superficiale e apologetica può indurre a ritenere che la «special relationship» sia stata priva di tensioni. Peraltro essa data agli anni Settanta, ed è stata comunque sempre il risultato della difficile dialettica tra la Presidenza, propendente per una maggiore simpatia verso lo Stato ebraico, e il Dipartimento di Stato, che ha spesso fatto da freno in tal senso. La novità, semmai, è data dal fatto che adesso, a manifestare le maggiori cautele sia, anche se per voce altrui, lo stesso Barack Obama, e non altri segmenti dell’Amministrazione. Il timore che si riconnette a questo stato delle cose è che tale atteggiamento possa preludere ad una netta attenuazione dei rapporti, sacrificati in omaggio all’intenzione (scarsamente corrisposta dalle controparti) di stabilire legami più intensi con il mondo musulmano. Al momento, va tuttavia riconosciuto, al di là di alcune prese di posizione, nulla nei fatti è successo. Obama non ha mutato nella sostanza l’indirizzo della politica americana in Medio Oriente né parrebbe poterlo fare, quanto meno in tempi brevi. Quello che si è consumato, come sottolinea Leslie H. Gelb, intervistato da Antonio Carlucci sempre per l’Espresso, è che la frizione è tutta diplomatica e gli Stati Uniti non intendono lasciare passare un comportamento che è stato inteso come irriguardoso nei confronti delle loro prerogative negoziali. Lucio Caracciolo, sulla medesima testata, usa toni meno sfumati, indicando nella politica verso Gerusalemme, e nella questione della sua evoluzione urbana e demografica, un vero e proprio punto di collassamento rispetto ad un processo negoziale che è assai improbabile che, a queste condizioni, possa ripartire. Fiamma Nirenstein, su il Giornale, è invece di diverso avviso, ritenendo che gli eventi che si sono consumati in questi giorni corrispondano ad un copione già visto, scontato e mediocre, dove all’ostilità dei (molti) soliti si aggiunge una politica, quella dell’Amministrazione americana, pencolante e a dir poco incerta, senza un traguardo nel mentre mette a rischio una solida partnership con Gerusalemme. Sul versante israeliano Eric Salerno, per il Messaggero, avanza alcune riflessioni nel merito dei riflessi che il viaggio di Netanyahu in America, svoltosi sotto l’egida di una fredda reciprocità tra gli interlocutori, potrebbe avere di qui alle settimane e ai mesi a venire. Se è inopportuno affermare che si sia ad un braccio di ferro tra gli Stati Uniti ed Israele, come invece lascia intendere Umberto De Giovannangeli su l’Unità, è invece assai più plausibile dire che si è a un secco confronto politico tra i governi dei due Stati. Il primo Ministro israeliano non piace a Washington, che evidentemente caldeggia, dietro le quinte, un mutamento degli equilibri interni a Gerusalemme, auspicando un ritorno sulla scena di Kadima, il partito dei moderati, come sottolinea Maurizio Piccirilli su il Tempo. Sullo sfondo di questa non facile crisi c’è l’involuzione – l’ennesima – che si registra a Gaza dove, come scrive Sergio Romano su Panorama, la concorrenza estremista ad Hamas, portata avanti dai gruppi salafiti, si sta facendo intensa e lascia prefigurare un futuro prossimo di tensioni, derivanti dalla prevedibile stagione, in divenire, di lotte intestine. Claudio Vercelli, http://www.moked.it/

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