mercoledì 19 maggio 2010



kibbutz Ramat David


IL MIO VIAGGIO IN ISRAELE 2010

Era un viaggio dal quale mi aspettavo molto, quello compiuto tra il 21 aprile e il 1 maggio 2010, perchè il tema mi era particolarmente vicino: il kibbutz, una società particolare, quasi uno stato nello stato, una società in evoluzione o in dissolvimento?La domanda non è retorica. Già lo scorso anno, con Angela, la GUIDA con tutte maiuscole, accennando all'argomento, avevo sostenuto che quel tipo di società fosse ormai in crisi. Lei invece mi aveva risposto rettificando il termine: non in crisi ma in evoluzione. Non potevo quindi mancare l'appuntamento di quest’anno. Ho vissuto in kibbutz per alcuni mesi, nel lontano 1972, a Ramat David, kibbutz della Galilea, a metà strada tra Haifa e Afula, kibbutz di area socialista, quella che all'epoca si chiamava Hihud Hakibutzim veHakvuzod.Era ancora il kibbutz di vecchio stampo, che aveva mantenuto lo stesso spirito di Degania del 1910, con il principio sempre valido del “dare quello che si è in grado di dare e ottenere quello di cui si ha bisogno”. Indubbiamente rispetto al primo Degania, ora il kibbutz poteva contare su una forte ricchezza, la vita era tutto meno che grama, i loisirs si moltiplicavano, ma lo spirito era ancora quello iniziale: una comunità nel senso lato del termine, dove tutto era in comune, dove la casa dei bambini era il centro più difeso del kibbutz, dove il segretario veniva eletto ogni due anni, dove il lavoro veniva organizzato dal sadran avodà giorno per giorno, dove ai 217 haverim (i soci del Kibbutz) si aggiungevano oltre una cinquantina tra volontari e studenti di Ulpan (la scuola di ebraico utilissima per i nuovi immigrati). Un mondo a parte, quasi geloso di queste sue particolarità.Questa era la società che io ricordavo, che avevo lasciato, con una visione forse un po' romantica di chi è giovane, una società dove l'idealismo la faceva da padrone, in uno Stato che ancora non era quello di oggi, uno dei tanti stati del mondo: all'epoca Israele era uno stato diverso, in costruzione, e la sua edificazione era compito di tutti, anche degli ebrei della diaspora. I nuovi immigrati arrivavano anche da paesi avanzatissimi, come gli Stati uniti o la Gran Bretagna, giovani che lasciavano ambienti certi e sicuri, situazioni economiche invidiabili, per lanciarsi in una avventura che si chiamava lavoro, manuale e non, servizio militare attivo con una guerra sempre alle porte.Bene, cosa ho trovato di quanto avevo lasciato?Una società diversa, e questo è certamente ovvio, ed è anche giusto. Sono passati 38 anni da quel lontano '72, quando ero andato in Israele per una serie di ricerche per la mia tesi di laurea, in diritto internazionale, con un argomento particolare, come particolare era lo Stato: “La cittadinanza nello Stato di Israele”. Così avevo ottenuto una borsa di studio alla facoltà di giurisprudenza del Monte Scopus (una delle poche facoltà che all’epoca si trovava lassù, cinque anni dopo che la vecchia Università Ebraica era stata nuovamente collegata con il resto di Israele), e proprio lassù ci si incontrava con tanti ragazzi, molti palestinesi che vivevano a Reznik, così si chiamavano quei nuovi palazzi che ospitavano gli studenti, dal nome dell’architetto che li aveva progettati. Quegli stessi palazzi che oggi sono quasi in disuso, quelli che Angela ci ha fatto vedere definendoli “vecchi”, e ora riservati alle matricole. La discussione era continua, e spesso nello shabbat si faceva carovana verso Ramallah o Beit El, o Skhem o Djenin, in casa di questi ragazzi, dove le mamme ci preparavano alcune prelibatezze tipiche della cucina araba.
Sarà perchè eravamo giovani, ma l'ottimismo regnava sovrano, le possibilità di pace le vedevamo vicine. Ottimismo che crollò poco più di un anno dopo, con la guerra del Kippur.Son tornato tante volte in Israele dopo quell'anno, cercando sempre di cogliere l'evoluzione che ogni stato naturalmente segue. E Israele non ha fatto eccezione.Abbiamo visto l'abbigliamento diventare sempre più formale, anche tra i politici: la cravatta è diventato un accessorio indispensabile nell'abito dell'uomo. I deputati della Knesset erano allora per un buon 35-40% membri di kibbutz, come lo erano i governanti, e questo si faceva sentire anche nel modo di pensare. E oggi? Il viaggio che abbiamo appena compiuto ci ha fatto toccare con mano la nuova situazione. Quella di Israele è una società composita, come quella di qualsiasi altro stato: i nuovi immigrati sono coloro che sono stati costretti ad abbandonare i vari Paesi perchè a rischio di rigurgiti di antisemitismo, persone quindi che hanno fatto una scelta per necessità, e che quando arrivano hanno bisogno di assistenza, e ciò a costi elevati; i giovani israeliani sembrano oggi preferire cercare fortuna altrove. E fanno bene!, ma 40 anni fa una atteggiamento di questo genere era impensabile. Chissà cosa direbbero di questo quei personaggi che nel '48, in quella sala di Tel Aviv proclamarono lo stato di Israele? O quei fratelli che diedero vita al Nili?
Forse il mio è semplice romanticismo, fuori dalla realtà contingente, il rimpianto di non aver avuto il coraggio allora di fermarmi lì, fare anche io la mia aliah.Chiedo scusa per essere caduto in atteggiamenti troppo personali, ma mi assalgono ogni volta che metto piede sul suolo israeliano.
Torniamo ai nostri kibbutzim. Dei circa 270 esistenti (il numero è rimasto pressochè costante negli ultimi 40 anni) solo una quarantina mantengono ancora il vecchio assetto, anche se con qualche cambiamento (ad esempio la casa dei bambini ormai abolita ovunque). E ne abbiamo visti due di questo tipo, tra i quali il kibbutz Lavì, capace di presentare un albergo quattro stelle, comodo e confortevole. Gli altri si sono privatizzati, parola che è contraddizione in termini con kibbutz. In pratica da padroni, in quanto soci di una cooperativa, sono diventati dei salariati, anche se questo significa un peculio di cui il kibbutznik può disporre a suo piacimento, mentre prima la decisione, anche per spese personali che non fossero della minuta quotidianità, era demandata all'assemblea, vincolo che diventava sempre più opprimente man mano che la carica ideale e idealistica personale diminuiva.E un certo rammarico l'ho colto nelle parole udite in alcuni kibbutzim, come quelle di Israel Corrado De Benedetti, a Ruhama, dove lui vive dal '49. De Benedetti (consiglio la lettura del suo libro “I sogni non passano in eredità” edito da Giuntina) ha percorso tutti i gradini della carriera del kibbutznik, e si è adattato alla nuova situazione, ma ho avvertito nella sua voce qualche rimpianto. Guido Sasson invece ha la speranza di mantenere ancora Lavì così com'è, un kibbutz tradizionale, anche se con qualche apertura a tempi che sono nuovi. E proprio questo kibbutz dimostra come si può aprirsi al moderno e all’attuale, senza far venir meno quei principi che dall’inizio hanno ispirato queste collettività.
Il viaggio ovviamente non si è esaurito solo nei kibbutzim. I quattro giorni passati a Gerusalemme mi hanno permesso di ritrovare momenti e ricordi antichi, nella città vecchia come in quella nuova, mondi paralleli che fanno di quella località un posto unico al mondo. La possibilità di salire sulla spianata del Tempio è stata una piacevole sorpresa: non ho potuto farlo per almeno 10 anni, mentre un tempo, quando vivevo a Gerusalemme, era una abitudine praticamente quotidiana. Emozionante la visita a Yad VaShem, difficile da definire invece era lo stato d'animo del momento. Mi occorrono alcuni giorni di permanenza in Israele per affrontare l’esperienza di Yad VaShem, ma a volte anche questo non basta. Si tratta di una situazione particolare, tanto che questa volta (ed è stata la prima volta che mi accade) non ce l'ho fatta a entrare nel mausoleo dei bambini!Ma tanti sono stati anche gli altri momenti che mi hanno fatto rivivere esperienze passate in quei luoghi, come il bagno, ahimè solitario, nelle acque di Gan Hashloshà, o in quelle dense e salate del Yam hamelah. La sosta di En Ghev, sul Kinneret, mi ha ricordato un concerto memorabile, con la filarmonica di Israele diretta da Bernstein e un pianista come Rubisntein, mentre la visione di Kuneitra mi ha ricordato una visita, nel ’72, a un gruppo di Volani.
Come cronista mi rendo conto che valgo poco: più che di fatti (il diario lo farà meglio di me Mara che ha preso appunti per tutto il viaggio) ho parlato di sensazioni personali, di atteggiamenti, di pensieri che si affollavano alla rinfusa, che spero lascino trasparire il mio grande amore per quel Paese, così piccolo, ma capace di dare grandi cose (anche se non sempre sono d’accordo con le scelte politiche del suo governo, ma non spetta a me la critica). L'incontro con Aaron Fait, che non vedevo da secoli, dimostra come un paese in difficoltà, con una asfittica economia, che deve spendere molto più di quanto vorrebbe per la propria sopravvivenza, sappia dare alla ricerca scientifica, sempre con scopi pratici ben identificabili, il peso che merita, che è molto più di quanto avviene in Italia.Il tema del prossimo viaggio saranno le 3 religioni monoteistiche? L'argomento già mi interessa, quindi non mi resta che dire a tutti: Shalom ulehitra'ot. Roberto

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