sabato 4 settembre 2010


Haifa

Voci a confronto (Rassegna Stampa)

Più che trombe varrebbe la pena di dire che si è fatto ricorso ai flauti (o ai pifferi?) così come al posto dei potenti tamburi ci si è accontentati di un modesto xilofono. I «peace talks», dialoghi di pace - li chiameremo così per meglio intenderci - hanno preso il largo, mollando gli ormeggi e ritirando l’ancora. (Darne compiutamente di conto nella rassegna stampa è impresa ardua, dovendo semmai selezionare a priori, secondo un qualche criterio soggettivo, quel che pare bene evidenziare da ciò che può essere trascurato). Un “accordo” c’è già: i leader delle parti in causa, che sono più di due, si incontreranno ogni quindici giorni. Ne parlano sui giornali di oggi Elena Molinari per l’Avvenire, Guido Olimpo su il Corriere della Sera, Rolla Scolari per il Giornale, Vincenzo Faccioli Pintozzi su Liberal, Anna Guaita su il Messaggero, Angelo Aquaro per la Repubblica, Lorenzo Cresci su il Secolo XIX, Maurizio Molinari su la Stampa. Cosa da ciò ne deriverà è impossibile dirlo al momento, anche se i tornanti sono così tanti da implicare, ad ogni passo, il rischio di una catastrofica compromissione e il fallimento totale. Si veda, al riguardo, Angelo Pezzana su Libero. Ne è testimone il diffuso scetticismo che li accompagna, sia per parte palestinese che israeliana. Non di meno tale sentimento è fatto proprio da chi, come Aaron David Miller, negoziatore di lungo corso, intervistato da Alix Van Buren per la Repubblica di oggi invita alla massima cautela. Sotto tale segno anche gli articoli di Lorenzo Trombetta su Europa, di Mattia Ferraresi su il Foglio così come di Amy Rosenthal sulla medesima testata. Scetticismo non indica propriamente un pessimismo insuperabile, e tuttavia segnala quante (e quali) siano le differenze e le diffidenze - queste sì al momento insormontabili - destinate, qualora dovessero perdurare, a segnare il futuro dei colloqui. Nei giorni scorsi le aggressioni contro i civili israeliani nei Territori palestinesi si sono “puntualmente” ripetute, seguendo un calendario parallelo a quello delle conversazioni in corso a Washington. Delle tante cose scritte a tale riguardo si vedano le voci raccolte da Paola Caridi per la Stampa di giovedì 2 settembre. Benjamin Barthe, in un duro articolo su le Monde del giorno precedente, elenca invece le tante speranze per così dire “tradite”: il processo di Oslo, avviatosi nel 1993, avrebbe dovuto in cinque anni chiudere il conflitto; la «roadmap», del 2005, riduceva a due anni i tempi per la nascita di uno Stato palestinese; la conferenza di Annapolis, del 2007, si produceva in un pronostico decisamente ottimistico, prevedendo per l’anno successivo il conferimento della sovranità definitiva agli uomini di Abu Mazen. Non ne è derivato nulla di che, se non una sorta di lievitazione nello stallo, con l’incremento della presenza israeliana - denunciata dai palestinesi come un’occupazione di fatto - e il ritorno, tra questi ultimi, in un moto di impotenza politica, delle vecchie suggestioni militanti, quelle che ipotizzano lo scioglimento d’Israele in uno Stato «democratico e multietnico», ovviamente a grande maggioranza arabo-musulmana. Una riflessione impietosa, e fortemente polemica, nei confronti d’Israele, ma che coglie alcuni aspetti della possibile futura evoluzione in campo palestinese, è quella che Meron Benvenisti offre in una intervista, sempre su le Monde di mercoledì 1 settembre, dove identifica diversi fattori critici tra i quali la scomposizione della popolazione locale in quattro macrogruppi (cisgiordani, abitanti di Gaza, diasporici e arabo-israeliani) con distinti profili biografici e diverse aspirazioni, tra di loro anche divergenti. Per Benvenisti «la popolazione della Cisgiordania è entrata in un processo di trasformazione simile a quello degli arabi israeliani. Non vuole la terza Intifada. Si concentra [piuttosto] sulla costruzione di un sotto-gruppo economico che chiederà, in un certo lasso di tempo, la sua annessione ad Israele [...]». Si confrontino queste parole con il profilo che Ariel David ci offre sul Foglio di giovedì 2 settembre del premier cisgiordano Salam Fayyad, definito il «gran cucitore». A ben pensarci è quanto di nuovo è emerso in questi ultimi tre anni, dopo Annapolis, in campo palestinese. Il resto, come sottolinea Aaron David Miller in una intervista rilasciata al Figaro del medesimo giorno, «est moins favorable à un accord qu’en 2000». Una prima analisi del campo di forze presenti intorno al tavolo negoziale di Washington è quella operata da Janiki Cingoli su Europa sempre di mercoledì scorso così come fa Aldo Baquis il giorno successivo, chiedendosi se «ci sono nuove chance di pace» sulla Stampa. Sei sono le «issues» dirimenti: i confini, la sicurezza, gli insediamenti ebraici, il destino dei profughi e dei rifugiati, lo status di Gerusalemme, la gestione delle risorse naturali, a partire da quelle idriche. Tradotti in altre parole i parametri dovrebbero essere questi: il ritiro per parte israeliana da una porzione di territorio compreso tra il 92-95% dell’intera regione cisgiordana; l’annessione degli insediamenti ebraici di maggiori dimensioni al territorio d’Israele, in cambio di porzioni equivalenti di terra ma anche il riconoscimento del «carattere ebraico» del paese, così come il rilascio di Gilad Shalit e una qualche “soluzione” del conflitto a Gaza con Hamas. Sui primi aspetti dell’oggetto della negoziazione rimane, come punto di partenza, quanto a suo tempo l’allora premier israeliano Ehud Olmert, in quel di Annapolis, aveva dichiarato d’essere disposto a concedere ai palestinesi, come ricorda Luca Possati su l’Osservatore Romano di ieri parlando dell’«ora della pace» in un documentato articolo. Aperte a qualsiasi ipotesi rimangono la spinosa questione dello status di Gerusalemme (che per Israele non è in alcun modo negoziabile, anche se il ministro della Difesa Ehud Barak, in una intervista al quotidiano Haaretz, ipotizzava la possibile spartizione del settore orientale tra ebrei ed arabi, in base a criteri demografici, idea già caldeggiata a suo tempo dallo stesso Olmert, come commenta Aldo Baquis su la Stampa di giovedì 2 settembre) così come il meccanismo delle compensazioni e degli assestamenti da offrire ai profughi palestinesi, data l’impraticabilità, materiale e politica, di un qualsiasi ritorno in massa ai luoghi d’origine. Più prosaicamente, però, mentre per parte israeliana predominano sia problemi relativi alla tenuta dell’attuale coalizione (dove una parte degli alleati, a partire da Israel Beiteinu e Shas non nascondono dissensi e dissapori marcati) che ad un piano strategico sul rapporto con un futuro Stato palestinese - in linea di principio accetto dall’attuale premier -, per la parte palestinese il conflitto interno alle diverse fazioni che la compongono (con Hamas che non partecipa al negoziato se non per tramite della violenza armata, come è avvenuto con l’assassinio di quattro israeliani ieri l’altro) si innerva nella scarsa legittimazione interna che Abu Mazen raccoglie e nei non minori problemi che derivano da una debolezza politica che sembra oramai attraversare tutto il suo campo. Segno dei tempi è il fatto che Netanyahu sia andato a Washington da solo, ovvero accompagnato unicamente da tecnici, sia pure di rango, mentre Abu Mazen ha definito il blocco dell’attività edilizia in Cisgiordania (ma anche a Gerusalemme Est) come dirimente rispetto a qualsiasi ulteriore conversazione. Le richieste che il primo ministro israeliano ha portato con sé riguardano anche la moratoria sugli armamenti palestinesi e, in particolare modo, una politica di smilitarizzazione dei Territori laddove ciò che più si teme è la capacità di fare ricorso a vettori missilistici capaci di compromettere la sicurezza delle grandi città israeliane. in questo bailamme quello che però si fatica a cogliere è il senso, quindi la meta, ovvero il vero obiettivo, della mediazione americana, al di là degli affanni elettorali di democratici e repubblicani per le elezioni di novembre, che costituiranno una sanzione per il prosieguo dell’azione politica dell’attuale presidenza. Tradizionalmente sono il tornante sul quale si misura la popolarità e l’impopolarità dell’inquilino della Casa Bianca. Il che demanda alla fattibilità o meno di un secondo mandato. Di certo, contestualizzando la tempistica adottata, gli incontri seguono alla conclusione della presenza più propriamente bellica degli statunitensi in Iraq, paese che deve ora vedersela da sé, tra le tre corpose minoranze (sunnita, sciita e curda) e con una accresciuta influenza iraniana. Ne parla diffusamente Lucio Caracciolo su l’Espresso di oggi mentre Maurizio Molinari, su la Stampa di mercoledì 1 settembre, ci dà il resoconto del discorso tenuto da Barack Obama agli americani, nel momento di celebrare la conclusione della operazione Iraqi Freedom. In quel paese non solo gli Stati Uniti ma anche la parte restante di una già raccogliticcia «coalizione» occidentale non intendeva più restarci. E non è quindi un caso se, come sottolinea Pierre Chiartiano sull’edizione di Liberal dello stesso giorno, la palla passi ora alle milizie private, quei contractor che, si dice almeno nella misura di 7mila, subentreranno in alcune funzioni svolte precedentemente dall’U.S. Army. La scomparsa del regime baatista ha segnato, tra le altre cose, il declino di quella funzione cuscinetto che Bagdad esercitava nell’intera regione. Tuttavia, se è riduttivo isolare la vicenda della contrapposizione tra Israele e i palestinesi rimandandola a sé, non di meno sfugge ad una logica puramente geopolitica la scelta operata da Washington di imporre (in altro modo non ci si può esprimere) ai due contendenti una mediazione. Plausibile che l’obiettivo praticato da Obama sia quello di tenere intorno al tavolo della discussione i contendenti quel tanto che basta per godere di un ritorno politico personale, dinanzi al calo di popolarità registrato in quest’ultimo anno. Dopo di che, chi avrà tela da tessere la tesserà. Nel mentre va ricordato che il Presidente israeliano Shimon Peres si è recato ieri in visista dal Papa, così come resocontano Caterina Maniaci per Libero, Giacomo Galeazzi per la Stampa e l’Osservatore Romano. Ancora qualche segnalazione dai giornali di oggi, oltre al profluvio sul conflitto israelo-palestinese, è quella che ci rimanda all’espulsione dai vertici della banca centrale tedesca di Thilo Sarrazin, «bundesbanker» in forte odore di razzismo e antisemitismo, in tutta probabilità già pronto a consegnarsi al pubblico come vittima di un sacrificio immeritato. Vanno in tal senso le ambigue parole di Sergio Romano su Panorama, dove l’autore confonde il diritto alla libertà di espressione per una licenza alla «trasgressione, alla provocazione e alla eterodossia» (ipse dixit!). Più equilibrati i resoconti di Beda Romano per il Sole 24 Ore, Alessandro Alviani su la Stampa, Vincenzo Savignano per l’Avvenire. Un’ultima segnalazione si impone. Domenica verrà celebrata l’undicesima edizione della Giornata della Cultura Ebraica, quest’anno dedicata alla rappresentazione artistica del sacro, un apparente ossimoro se ci si rifà alla Torah. Ne parla diffusamente su l’Avvenire di oggi Massimo Giuliani così come Elena Loewenthal ad essa si richiama sulla Stampa. Claudio Vercelli, http://moked.it/

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