venerdì 22 ottobre 2010


Alessandro Piperno - Il fuoco amico dei ricordi. Persecuzione“

La verità è tutto ciò che le immagini non dicono”. Una possibile chiave di lettura del secondo romanzo di Alessandro Piperno si trova in questa citazione rabbinica situata a metà circa del libro. La pronuncia un umile e sottomesso Rav Perugia, che nel libro svolge una parte analoga, ma meno urticante degli indolenti Rabbini della estrema provincia americana immortalati nell’ultimo film dei fratelli Cohen. Due tredicenni saputelli, il protagonista del romanzo Leo Pontecorvo e il futuro avvocato, che invano cercherà di cavarlo fuori dai guai in cui si andrà a cacciare, chiedono lumi al Rabbino sull’iconoclastia ebraica.Leo diventerà un uomo di successo, si occuperà di rare forme di tumori infantili, un medico e giornalista famoso. E’ un personaggio più lineare rispetto ai protagonisti del libro di esordio di Piperno. La vita porterà Leo a un esilio “scarafaggesco” nello scantinato della sua bella casa all’Olgiata. L’inizio del romanzo è faticoso, ma dalla seconda parte in poi il lettore non riuscirà ad abbandonare una trama intensa e coinvolgente.Craxiano fedele al partito, forse non estraneo agli intrighi politici cui deve una parte della sua fortuna, ad un tratto, assai prima di Tangentopoli, Leo entra in crisi: si inceppa qualcosa, forse non è estraneo il ricordo del caso-Achille Lauro – il destino sembra accanirsi contro di lui. Come per un imperscrutabile disegno le disgrazie si susseguono una dopo l’altra, si spezza la serenità famigliare nella quale aveva creduto. Una serie di scandali lo vede coinvolto prima marginalmente, poi in modo esplicito fino allo scandalo degli scandali, il tabù infranto: avrebbe sedotto e, forse violentato, la fidanzatina tredicenne di uno dei suoi due figli. Arrestato e rinchiuso in carcere per alcuni giorni, la sua casa perquisita: la televisione e i giornali non fanno che rovinare la sua privacy, i figli e la moglie torcono il viso da lui. La colpa, che in un primo tempo, sembra imperdonabile si trasforma in accanimento giuridico, Leo pensa non a torto di essere vittima di una ingiustizia. Nel finale kafkiano, come un insetto cacciato dal consorzio civile, Leo morirà affogato nella cantina-rifugio. Lo ritroverà una domestica dal nome cinematografico illustre, Telma.Le immagini, come si diceva, sono una possibile chiave di lettura. Vietate, sì, ma fino a un certo punto. Anche i nomi dei personaggi hanno un significato nascosto che rimanda in modo quasi sacrilego a una icona, filmica più che pittorica. Persecuzione è un romanzo dove l’autore a suo modo mette in pratica l’insegnamento della tradizione: la verità non coincide con l’immagine. Un altro episodio rivelatore è la brutta foto di Leo a cavallo, che i quotidiani sbattono in prima pagina il giorno in cui esplode lo scandalo. Palesemente non è una immagine vicina al vero. Sono comunque i disegni che accompagnano il libro a colpire il lettore. Questo è un libro sobriamente illustrato. Si tratta di poche tavole in bianco e nero, vere e proprie tavole di fumetti: sono opera di Werther Dell’Edera e faranno sentire a casa propria il lettore di “Linus” o di un’altra rivista di fumetti. Un fumetto, non vi è dubbio, noir. Sul piano tipografico questi disegni sono una sorpresa (come la parola “continua”, che, alla fine, sostituisce i cinematografici titoli di coda). Sul piano narrativo il ruolo del “misterioso artefice” dei disegni ha un valore nascosto, forse più alto. E’ il disegnatore, quasi, un mistico deus absconditus: quelle scure sue tavole “fanno paura come fanno paura tutte le cose che non hanno senso”.In chiave allegorica “il fumettista nell’ombra” credo abbia a che fare con la domanda che il tredicenne Leo e il suo amico Herrera avevano formulato al Rabbino Perugia cercando di metterlo in difficoltà: perché agli ebrei è vietato “farsi immagine”? Dove si nasconde la verità, se le immagini non riescono a riprodurla nemmeno attraverso la deformazione del fumetto? Il romanzo fa un uso molto spregiudicato delle categorie del Tempo. Nei giorni dello scandalo Leo ripensa a tutta la sua vita, nel finale gli interrogativi sulla natura del male e della persecuzione diventano opprimenti fino a sopprimere il protagonista. In questa nuova prova Piperno fa più direttamente i conti con l’ebraismo e con i temi del romanzo ebraico novecentesco. Non ci sono solo riferimenti espliciti, troppo scontati, a Philip Roth (questa volta un Roth mescolato con Nabokov). E’ dominante, fin dal titolo, la riflessione sulle possibilità annientatrici della memoria dolente, il cui “fuoco amico” può essere micidiale; sul nesso verità-storia e verità-vita Piperno sembra qua e là rinviare a Svevo, oltre che a Kafka, ma sono temi ricorrenti, su cui il saggista e critico letterario Piperno s’interroga da anni, a partire dal libro su Proust (e sulla memoria ebraica di recente è ritornato, per esempio, nel suo interessante dialogo con David Mendelsohn, l’autore de Gli scomparsi).Piperno è il solo scrittore che affronti, sul piano sociologico, oltre che letterario, la condizione ebraico-italiana. Roma è il suo osservatorio privilegiato. Non ha un buon rapporto con l’ebraismo della capitale, questo si vedeva già dal primo libro. Nuoce forse l’angolatura aristocratica e direi quasi dannunziana delle vicende che tratta (qui, in parte, l’idiosincrasia è attenuata dalla figura della ebrea del ghetto, la fidanzata e poi moglie Rachele). Più che Zuckermann i personaggi che Piperno mette in scena ci sembrano degli Andrea Sperelli in fuga dal Portico d’Ottavia (e da se stessi). Rimane però un fatto: nessuno scrittore ebreo-italiano, nato dopo la Shoah, meglio di Piperno riesce a ragionare, in forma apparentemente fumettistica (cioè parodistica) , sul “contenzioso” che ha inasprito la “microscopica ma agguerrita” comunità romana. Le due concezioni alternative, che in questo romanzo dividono Leo da Rachele, discendono, secondo Piperno, dalla “grande pubblicità” ricevuta dagli ebrei dopo le sconvolgenti notizie sulla deportazioni che incominciarono a diffondersi negli anni in cui l’autore veniva al mondo. Quella grande pubblicità, scrive, “disperarono” e al tempo stesso contribuirono a “ringalluzzire” l’idealtipo. Sono gli in cui si scoprirà “l’esistenza, in paesi lontani, di ebrei molto più ebrei di lui: rigorosi e pittoreschi, tragici e brillanti, questi askenaziti – con le loro friabili, magiche, esoteriche esistenze sempre sull’orlo del disastro – apparivano mille volte più all’altezza, smisuratamente di più di quanto l’ebreo romano non si fosse mai sentito, del compito di vittime sacrificali e di pacifici eroi alla riscossa affibbiato agli ebrei dalla Storia”. Da questa condizione di inferiorità scaturisce la solidità psicologica dei due personaggi maggiori e la buona riuscita del libro. Rachele sviluppa uno spirito di emulazione “tradotto nell’importazione di un compendio di abitudini e divieti da secoli scomparsi dalla nostra tradizione”. Leo, per contrasto, incarna il risultato di una radicalizzazione: fenomeno comune a molte altre anime laiche e illuministiche della comunità (non solo romana): uno spirito sarcastico, sconfinante appunto nella iconoclastia, nevrotici modi di irrisione e insofferenza. Lei dissotterra vecchie tradizioni per rendere meno confortevole la vita della sua famiglia; lui “fa la conta di tutti gli ebrei secolarizzati in giro per il mondo che hanno fatto successo nel cinema, in letteratura, in medicina”. Alberto Cavaglion, http://moked.it/

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