domenica 24 ottobre 2010
“Kolno’a” Nuovo cinema israeliano
Cinema in ebraico si dice “kolno’a”. Per questo è rimasta la dizione “kolno’a” per questo periodico festival del cinema israeliano che quest’anno celebra a Roma la propria ottava edizione. A curarlo sempre Dan Muggia e Ariela Piattelli e a prepararlo sempre l’istituto di cultura ebraica Pitigliani, con l’aiuto economico di Regione Lazio, Provincia e Comune di Roma. A ospitarlo la casa del cinema di Roma (24 -28 ottobre 2010) e a fare da efficacissimo ufficio stampa sempre il duo Raffaella Spizzichino e Maya Reggi, che curano anche il festval del cinema mediterraneo, o Medfilmfest che dir si voglia. Quest’anno i due piatti forti sono due documentari: “Diplomat” e “Zulam al yedei Itzahk”, cioè “girato da Itzahk”, si intende Rabin ovviamente. Il primo documentario tratta appunto de l’Hotel Diplomat di Gerusalemme. Che era una volta un albergo a cinque stelle. Da venti anni è diventata la casa di seicento immigrati dell’ex Unione Sovietica. I residenti non si sono mai integrati in Israele e si sono creati un microcosmo separato da tutto ciò che è fuori dall’entrata principale dell’albergo. Sebbene in Israele, gli immigrati continuano a vivere con la mente nel loro paese di provenienza: parlano il russo, suonano le musiche che hanno imparato li, tutto ciò di cui hanno bisogno, dalle attività culturali all’assistenza medica, gli viene dato nella loro lingua. L’atmosfera è surreale: i residenti dell’hotel Diplomat vivono ogni ora della vita rinchiusi in un limbo, tra un paese da scoprire che li aspetta fuori e l’eterna nostalgia per la loro cultura, la tradizione, la famiglia e la terra nella quale sono nati e cresciuti. L’altro documentario che si consiglia vivamente è composto di film 8 millimetri, ciascuno da tre minuti che, messi insieme, ammontano a dieci ore di materiale girato da Itzhak Rabin, un grande appassionato della cinepresa. Tutto comincia con l’inquadratura di uno scatolone pieno di polvere. Altre piccole scatole gialle dentro. Una scritta che si ripete sopra ogni scatola: “Yitzhak”. Gli anni Sessanta, un panorama ancora aperto, tanta ingenuità, un’Israele oramai scomparsa. Qualcuno titolerebbe questo film “Gli anni dell’innocenza”. Ma c’è anche di più: gli amici, l’esercito, la politica, la famiglia e gli affetti. E poi i viaggi in Europa e in Persia prima della rivoluzione islamica. In genere la presenza degli immigrati russi, soprattutto quelli arrivati dall’ex Unione Sovietica negli anni ‘90, che costituiscono un quinto della popolazione israeliana, è l’unico tema predominante nella sezione più importante del “Kolno’a” di quest’anno: “Sguardo sul nuovo cinema israeliano”. Parliamo sia di persone che hanno quasi dimenticato le proprie origini e sentono di essere totalmente entrate nella società israeliana sia di altre che invece continuano a vivere come in un limbo, isolate dal mondo che le circonda, portando avanti le proprie tradizioni e continuando a parlare la lingua madre. Questi fenomeni hanno destato l’interesse dei registi, forse proprio perché alcuni di loro provengono da quel mondo. Ad esempio Leonid Prudovsky, immigrato in Israele dalla Russia quando era bambino, che è il giovane regista di “5 ore da Parigi”, una commedia romantica, fatta di amaro realismo “anti hollywoodiano”: racconta l’amore impossibile tra un tassista israeliano e la maestra di suo figlio, una donna di origine russa. Impossibile per varie ragioni, tra cui anche la distanza culturale che separa i personaggi. Anche in “The Loners” di Renen Schorr, un grande nome del cinema israeliano non solo per i suoi film, ma anche perché è stato fondatore ed è l’attuale direttore della Sam Spiegel School di Gerusalemme, è proprio la distanza culturale e sociale che spinge i due protagonisti del film a provocare una rivolta in un carcere, dove sono detenuti. Schorr (come Prudovsky) ha scelto un genere non molto presente nel cinema israeliano: quello del film girato in una prigione, con le sue atmosfere oscure, claustrofobiche e violente, che rimandano ovviamente al desiderio di evasione. Qualcuno ci vede anche una metafora della attuale situazione della società civile israeliana, da cui tutti vorrebbero evadere. Anche se in quel caso la “prigione” è la continua esigenza di sicurezza dovuta al fatto che Israele è l’unico paese del mondo circondato da nemici che ne predicano la distruzione fin dai libri di scuola elementare.
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L'angolo del cinema
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