sabato 16 ottobre 2010

Shlomo Venezia
16 ottobre 1943

Basse murature sbreccate in fondo a un viottolo di campagna, calcinacci che si aprono su stanzoni vuoti. E' la prima Judenramp del campo di sterminio di Birkenau. Su un rialzo erboso, Shlomo Venezia racconta agli studenti romani assiepati intorno: «esattamente qui, questa è la prima Judenrampe, dove sono arrivati tutti i primi italiani», a partire dai 1022 ebrei deportati da Roma il 16 ottobre 1944. Alle sue spalle, ogni tanto passa un treno.Sono venuti duecento ragazzi di 33 scuole di Roma, coi loro insegnanti, dopo un anno di lavoro fatto di ricerche, letture, incontri con sopravvissuti e con storici, in un viaggio voluto da Veltroni, organizzato dall'assessorato alle politiche educative insieme con la Comunità ebraica. Racconta Shlomo Venezia: «Arrivato il treno - la tradotta, carri bestiame - incominci a sentire urla, strilli, raus, raus, e tutt'attorno c'erano le guardie con i cani lupo. Ero giovane, avevo vent'anni come molti di voi; mi sono fermato un attimo, per aiutare la mamma - e subito sento due botte in testa, non ho fatto a tempo a girarmi, ho visto che era il tedesco che voleva che si liberasse il posto per far scendere tutti quanti, saltare giù come gli animali. E difatti già lì è cominciata la selezione».Ci spostiamo all'ingresso vero e proprio del campo di Birkenau: una città sterminata, di cui restano file di baracche in muratura, e poi a perdita d'occhio, come uno stormo di gru, gli steli delle canne fumarie delle baracche di legno smantellate dopo la guerra dai locali - per fare legna da ardere ma anche, spiega lo storico Marcello Pezzetti, per cercare il mitico «oro degli ebrei». I nazisti avevano pensato che era più razionale fare arrivare i binari dentro il campo e mandare i selezionati direttamente a piedi alle camere a gas. Accanto a quei binari, alla Judenrampe 2 dove scese dal treno con tutta la sua famiglia, ci aspetta Piero Terracina.«Non potete immaginare la confusione che c'era qui, perché ognuno correva da una parte all'altra per cercare i propri cari che avevano viaggiato su altri carri. Una scena che a dire infernale è poco. Le Ss correvano da una parte all'altra menando colpi di bastone. Io avevo poco più di quindici anni, facevo presto a schivare i colpi; quelli che venivano colpiti erano le persone anziane, le donne, le mamme coi bambini in braccio. Urlavano ordini in tedesco che non capivamo; ma c'è un linguaggio che tutti capiscono, quello del bastone. Col bastone riuscirono a mettere ordine; formarono due file, una di uomini e una di donne. E cominciò subito lo sterminio. Io, in mezzo a questa confusione, andavo in cerca di mia madre, insieme ai miei fratelli. Mia madre piangeva, ricordo ancora l'abbraccio - e poi - non l'ho più vista. Questo è stato, è stata la scena dell'arrivo su questa stazione, su questa rampa, su questi binari».Piero Terracina l'abbiamo sentito parlare molte volte, ma ogni volta è la prima volta. Il tempo non ha attenuato il dolore e non ha banalizzato la parola. Oggi deve ripetere il racconto più volte ai gruppi di studenti che si susseguono davanti a lui; ma ogni volta deve fermarsi a cercare dentro di sé la forza e la parole. Una ragazza, Simona Rapino, gli dà una lettera: «quei silenzi agghiaccianti ti danno il tempo di far ritirare le lacrime che, come animali in gabbia che scorgono una fessura, tentano di scappare». «Ricordo mio padre, con mio nonno; la sua colonna si avviò a piedi verso le camere a gas. Non sapevamo che cosa erano, pensavamo che queste ciminiere fossero le fabbriche dove avremmo dovuto lavorare per la Germania. In un certo senso ci avevano tranquillizzato. Non sapevamo che erano la fabbrica della morte. E mio padre per tutto il tragitto faceva qualche passo e si voltava, a salutare con una mano, ogni pochi passi si voltava, ci salutava, alzava la mano. Fino a che scomparve alla vista».Dai ragazzi vibra affetto, quasi come se Piero Terracina fosse per loro quel padre e quel nonno che lui ha perduto in questo posto. Aveva la loro età, gli fa immaginare su se stessi la solitudine di vedersi strappare tutti, e sapere che non esistono più. «Sono parole che non riescono a scivolarti dalle orecchie, che ti sgusciano dentro al sangue e lo gelano», gli scrive Claudia Catelli, del Giulio Cesare. «E' il compenso più alto che potrei immaginare», dirà lui. La prossima stazione è il crematorio, dove ci attende di nuovo Shlomo Venezia. I nazisti lo fecero saltare, e non restano che le rovine; ma quel cemento lacerato, quei ferri contorti, sembrano un monumento alla disperazione dei sommersi e alla vergogna degli assassini. Shlomo Venezia svolgeva il lavoro più terribile: il Sonderkommando, l'unità addetta a estrarre e lavorare i cadaveri delle persone uccise dal gas. «Praticamente dieci mesi sono stato sempre a contatto con migliaia e migliaia di cadaveri. Non vi potete immaginare come erano queste persone. Erano irriconoscibili, non si sapeva più se erano persone, se erano altre cose. Molti venivano addirittura, con gli occhi di fuori. Altri, scusate, vi devo dire la verità, vomitavano sangue; insomma, c'era di tutto. Soffrivano dieci minuti ma era un'eternità per questa povera gente». Il semicerchio dei ragazzi si stringe; gli occhi si sgranano, le labbra si serrano, le braccia si intrecciano come per darsi sostegno. Spuntano lacrime.«Mi hanno dato in mano una forbice, di quelle che usano i sarti. Dovevo tagliare i capelli; tagliavo i capelli alle donne. E un altro, gli avevano dato lo specchietto del dentista, una pinza col quale doveva estrarre i denti d'oro. C'era una specie di pista in cemento dove veniva buttata con le carriole tutta la cenere di queste persone che morivano. E lì veniva tutto pestato, tutto sminuzzato in maniera tale che non si vedesse più che erano ossa umane. Alla fine veniva un camion, caricava sopra, e veniva portato al fiume, veniva buttato lì».Ma per fortuna sono ragazzi. Dirà poi Veltroni che la visita in questo luogo di dolore è anche un gesto di speranza, riposta nelle facce e nelle voci di questi ragazzi normali che diventano testimoni. La loro presenza ci conforta. Il giorno dopo, incontrando i coetanei polacchi, alcuni di loro si lanceranno in complesse ricostruzioni delle radici culturali dell'Europa; ma adesso si esprimono anche in modi più di pancia. Una ragazzina con la faccia tonda e gli occhi brillanti di pulita intelligenza dice all'amica: «se incontro uno di quelli che dicono che non è vero lo piglio a calci'n culo». Si accorge che ho sentito, arrossisce (come si imbarazzano facilmente). Un ragazzo: «ar primo che me racconta `na barzelletta sull'ebrei, lo strrrìtolo». Nel sotterraneo delle celle di punizione, dove fu sperimentato il Zyklon B, una ragazza ascolta assorta, poi sussurra due parole forse inadeguate ma sentite: «Che stronzi!» E arrossisce.Nella baracca dove stavano i bambini messi da parte per gli esperimenti dei medici nazisti rstano i disegni delle maestre (un cinese che va a scuola: così possono disegnarlo con un copricapo che sembra una kippah). Marcello Pezzetti racconta con la voce rotta di quando i nazisti chiesero ai bambini chi voleva rivedere la mamma, e poi li portarono dal dottor Mengele; due bambine rifiutarono la mamma, deturpata dal campo - e sopravvissero con il dolore di quel rifiuto.Ci raduniamo di nuovo davanti al crematorio. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, suona lo shofar, il corno che si ascolta solo in momenti estremi e solenni. Scandisce i salmi, intona il Kaddish, e poi gli ebrei presenti ci avvolgono tutti nel canto Amì Maanim - io credo, nonostante tutto, nel ritorno del Messia - che i deportati intonavano nel momento di scendere dai treni. Gli altri ragazzi vorrebbero capire di più. Uno è dispiaciuto che nessuno gli spiega le parole; dico, chissà quanti concerti hai sentito dove non si capiva niente. Lui annuisce ma non è convinto: stavolta capire le parole gli importa molto di più. Altri, la sera a cena, tempestano di domande un esponente della comunità, ascoltano rapiti le spiegazioni.Nel pomeriggio, passiamo sotto il cancello: Arbeit macht frei. Birkenau sembrava l'incarnazione della terra desolata, Auschwitz 1 sembra ordinaria archeologia industriale, mattoni scuri, viali con alberi ed erba. E un'industria era, dove si fabbricava morte e se ne estraeva profitto. Negli stanzoni, teche di vetro mostrano i prodotti di quella industriosità. Davanti a ogni teca - ai paramenti religiosi, agli abiti dei bambini, alle scarpe, a un enorme mucchio di protesi, gambe di legno, corsetti di ferro - qualcuno va in pezzi. I ragazzi di una scuola tengono un diario; uno di loro annota: «Non è il set di un film - lo si vede sui muri screpolati, sulle scarpe consumate, sui vestitini dei bambini». Io non dimenticherò mai il grigio mare increspato di capelli che coprono una stanza intera. Carla Di Veroli legge le ultime pagine dell'autobiografia di sua zia Settimia Spizzichino - testimone instancabile del 16 ottobre. Parlano del dovere della memoria. Una ragazza cerca maldestramente di non farsi vedere mentre si asciuga gli occhi con un kleenex. Ma per fortuna, sono ragazzi. Dopo che Veltroni ha deposto la corona al muro delle fucilazioni, si raccolgono in cerchio per la foto di gruppo col sindaco, e ritrovano le loro facce di adolescenti che sorridono. La sera, tutti ricevono una copia del 16 ottobre 1943 di Giacomo De Benedetti. Mi chiedono tre ragazze: «dov'è il signor De Benedetti?» Vorrebbero la sua firma. Purtroppo, dico, non è più fra noi: arrossiscono. Una professoressa mi spiega: è che in questo viaggio sentono un potere tutto nuovo di essere in contatto con i luoghi e i protagonisti della storia; gli autori dei libri non sono più astrazioni, sono persone con cui parlare. Veltroni ricapitola il loro percorso della memoria, ribadisce che adesso il compito di raccontare passa a loro, ricollega tutto all'antifascismo e alla resistenza, a cui dobbiamo la speranza che questo non accada più. Poi, per scrollarsi un poco quell'aura di morte, tutti fuori, verso la serata che gli è stata organizzata in discoteca.Sul volo di ritorno, leggo ancora il diario dei ragazzi: «Tra venti minuti atterriamo, e sento di avere nel cuore una ricchezza che non avevo alla partenza». Non racconteranno più memorie altrui trasmesse, ma un'esperienza vissuta in proprio. Sanno anche che è l'inizio di un impegno che non finisce qui. Un ragazzo scherza con Veltroni: «E mò come fai senza de me?» «Ti telefonerò ogni mattina per farmi dire che devo fare». Dico, tanto ci ritroviamo tutti presto. «Già, ci becchiamo il 16 all'Auditorium», dice (e si imbarazza, pensando di aver usato linguaggio inappropriato). «Ci vieni?» gli chiede Veltroni. E lui, «Come no, non me ne perdo una». http://www.spazioforum.net/

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