sabato 16 ottobre 2010


Voci a confronto

Domani ricorre il triste anniversario della «razzia al ghetto», quella ferocemente consumata dai tedeschi ai danni degli ebrei romani il 16 ottobre del 1943. Gli anni sono passati ma continua a trattarsi di una data che rimane impressa nella coscienza degli italiani, almeno di quelli che non vogliono voltare la testa dalla parte opposta, allora come oggi. A parlarcene, per la parte che spetta a questa rassegna stampa, è indirettamente un lungo articolo di Corrado Augias su la Repubblica di oggi, dove viene commentata la fiction che andrà in onda il 31 ottobre prossimo, così come il giorno successivo, sul primo canale della televisione di Stato, dedicata alla figura di Pio XII ai tempi dell’occupazione tedesca di Roma. Parte centrale dell’opera è il ruolo di Pacelli nella tragica vicenda incorsa agli abitanti del ghetto (e di altri quartieri di Roma). Il giudizio di fondo che l’autore formula nel merito dell’intera produzione, quindi anche delle intenzioni culturali che si possono ricavare dalla sua visione, è piuttosto secco se non duro, vedendovi in essa una opera dai forti tratti apologetici, ovvero protesa ad esaltare una dimensione «eroica» del pontificato. Centrale è la chiusa dell’articolo di Augias laddove afferma che «d’altra parte non è da sceneggiati come questo che si può pretendere una sia pur approssimativa verità storica. Lo scopo è diverso: tratteggiare al meglio una figura preparandola alla santità». Riscontriamo peraltro che nel 2009 si è conclusa la seconda fase di beatificazione di Pacelli, il quale ha ricevuto il titolo di «venerabile», elemento che ne attesta l’eroicità delle virtù per la Chiesa. Rimane il fatto che il film, prodotto per la televisione, parlerà ad un ampio pubblico, di credenti e non, fatto che sicuramente solleverà reazioni assortite, di identificazione ma, forse, anche di differenziazione se non di biasimo – più o meno sottile - per coloro che dovessero riscontrarne la non verosimiglianza in uno o più fondamentale passaggi. Qualora ciò dovesse accadere, detto per inteso, poiché finché la proiezione pubblica non avrà corso è per ognuno di noi difficile, se non impossibile, affermare alcunché di certo. E rimanendo per così dire nell’argomento, ma spostando il fuoco dell’attenzione, la cronaca di questi giorni ci offre ricchi spunti, purtroppo, per soffermarci su piccoli e grandi negazionisti, abituali stravolgitori non solo e non tanto della storia trascorsa quanto – ed è l’aspetto più preoccupante – del presente. Partiamo dai primi, quindi. Bianca Stancanelli, su Panorama, tratteggia un ritratto di Claudio Moffa, docente all’Università di Teramo, fondatore e direttore del «master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente», al quale l’autrice dell’articolo attribuisce quindici iscritti. Moffa è personaggio (vale la pena di usare questa espressione) già noto alle cronache poiché da tempo, anche attraverso le sue attività accademiche, va sostenendo la plausibilità di tesi quanto meno “riduzioniste” sulla portata dello sterminio degli ebrei nell’Europa occupata dai nazisti. Non a caso la prolusione d’inizio della nuova edizione del master, tenutasi il 25 settembre, era dedicata a «il tema tabù del mondo accademico: il dogma della Shoah». Frammenti e segmenti della medesima, finiti su internet e poi, nel classico gioco dei rimbalzi che è parte integrante dell’informazione, sulla carta stampata, hanno rotto le cateratte delle polemiche, innescando una (nuova) reazione a catena. Moffa, si diceva, non è nuovo a questo “gioco delle parti”, e l’articolo di Stancanelli ne racconta le precedenti “peripezie”. Il gusto della “provocazione scientifica”, rivestita ambiguamente degli abiti dell’innovazione intellettuale e del coraggio culturale, quelli di uno sguardo “non conformista” al passato, sono cibo abituale per i denti di chiunque voglia delegittimare l’evidenza dei trascorsi proiettandone poi i risultati politici e culturali sul presente. Si tratta peraltro di una strategia argomentativa consolidata, che si basa su un costrutto mentale molto seduttivo, quello che sostiene che la realtà dei fatti non sia mai il risultato di forze visibili ma, piuttosto, il prodotto dell’operato di forze occulte. Le quali hanno tutto l’interesse (privato, ossia a stretto giro personale, per autoavvalorarsi) a riscrivere il passato (pubblico, poiché collettivo) ad immagine e somiglianza dei propri, inconfessabili interessi. Propriamente, questo stile intellettuale è quello tipico dei cosiddetti “negazionisti”, ossia di coloro che, non importa a quale titolo e per quale ragione, affermano che ciò che è stato non è mai accaduto o, ancora meglio, che la valutazione dei trascorsi implichi la svalutazione del giudizio corrente che, per il fatto stesso di essere condiviso dai più, potrebbe essere o sarebbe il risultato di una menzogna diffusa a piene mani da chi “controlla il potere”, per sua natura manipolatore delle menti. Presentando il tutto, quindi, come una rilettura libera da infingimenti di sorta, protesa a liberare energie e “verità” altrimenti imprigionate dalla congiura dei silenzi o, peggio ancora, delle versioni di comodo. All’atteggiamento, di calcolato candore del «signor Claudio Moffa», così come efficacemente lo definisce Riccardo Pacifici su la Repubblica, risponde oggi il presidente medesimo della Comunità di Roma, sempre sul giornale diretto da Ezio Mauro, laddove si invita a fare in modo che riguardo al negazionismo è bene che «l’Italia adotti una legge per punirlo». Così la cronaca di una querelle, quella sul ruolo e sul magistero intellettuale del docente dell’Università di Teramo, che si trascina già da alcuni anni, ovvero dalla nascita del master dedicato a Enrico Mattei che è divenuto un po’ il raccordo “accademico” di quanti si riconoscono nelle affermazioni di cui Moffa è convinto titolare. Ma il vero punto critico, in questo come in altri casi, è la saldatura tra la provocazione intellettuale e le politiche di Stato. E qui spostiamo la nostra attenzione ai grandi negazionismi, che sono la vera sponda politica sulla quale concentrarsi. Nel suo viaggio-show in Libano (un fatto già di per sé inquietante) il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, durante una acclamata e partecipata tappa a Bint Jbeil, roccaforte del movimento sciita Hezbollah – il cui radicamento sociale è un fatto tanto incontrovertibile quanto angosciante - ha dichiarato che «i sionisti sono mortali», che come tali «sono destinati a scomparire per sempre» e che «non hanno altra scelta che arrendersi e tornare nei loro paesi d’origine». Millanterie da bullo di ricca periferia (quella geostrategica del Medio Oriente) o minacce sensate, poiché fondate su una reale capacità di fare seguire ad esse gesti concreti? In tutta la probabilità entrambe le cose, poche le prime si nutrono delle seconde e viceversa. Si legga in tal senso l’intervista di Daniele Castellani Perelli su Europa a Ilter Turan docente di scienze politiche all’Università di Istanbul. Sta di fatto che in un drastico capovolgimento dei ruoli Ahmadinejad ha indossato i panni di risoluto capo fazione libanese, dicendo a tutti che chi dovesse toccare Hezbollah se la dovrà vedere con Teheran. E poiché la minaccia è vicina nonché concreta, essendo il movimento sciita sotto la lente del giudizio del tribunale che indaga sull’assassinio del premier libanese Rafiq Hariri, il brivido di timore ha un fondamento in più oggi, quanto meno rispetto agli anni trascorsi. Tra le tante testate fanno menzione del fatto il Corriere della Sera, la Repubblica, e con maggiore chiarezza esplicativa e più ariosità espositiva, il Foglio, che inoltre, in un altro interessante articolo, intervista Michael Young su il destino di un Libano sotto la rinnovata morsa dell’estremismo e le fragilità costituive dell’anemico Stato centrale beirutino. (La medesima testata si pronuncia poi sui processi demografici in corso in Medio Oriente, rilevando come la regione si avvii allo «svuotamento dei cristiani».) Così ancora, con accenti diversi, gli articoli di Luca Geronico per l’Avvenire, Umberto De Giovannangeli su l’Unità, Francesca Paci per la Stampa, così come il resoconto, inquietante per gli aspetti di vivido e livido “colore”, di Lorenzo Trombetta per Europa. Da ultimi, in una giornata ricca di sollecitazioni, ci siano permessi rimandi all’intervento del rabbino David Rosen al Sinodo sul Medio Oriente in corso in Vaticano, riprodotto su l’Osservatore romano, così come, sempre sulla stessa testata, un articolo sullo “stato dell’arte” nelle negoziazioni tra israeliani e palestinesi, sulle quali anche Shlomo Ben Ami interviene per il Figaro così come Yossi Klein Halevi su il Wall Street Journal Europe.Claudio Vercelli, http://moked.it/

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