martedì 23 novembre 2010


Abravanel: “le buone regole sono un ottimo affare”Il mio ebraismo

Ha salvato la compagnia aerea israeliana El Al dal fallimento. Siede nel board di Luxottica, Teva e altre società. E’ Consulente del Ministro Gelmini. Autore del best seller Meritocrazia oggi esce con Regole, un saggio ispirato al sistema ebraico di valori. Sobrio e accogliente, Roger Abravanel, 64 anni, confessa che da quando ha mandato alle stampe nel 2008 il libro Meritocrazia (Garzanti), la sua vita è radicalmente cambiata. Interviste, una rubrica da opinion-maker sul Corriere della Sera, una consulenza al Ministro Gelmini, insomma un successo che non si aspettava. Anche con il suo secondo saggio, Abravanel rischia di fare bingo un’altra volta: uscito pochi giorni fa, Regole. Perché tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il paese (Garzanti, scritto a 4 mani con Luca d’Agnese), sembra fin dal titolo un best seller annunciato. Un premio ricevuto pochi mesi fa all’INSEAD di Fontainebleau, la Harvard europea, -per essere stato uno dei 50 allievi che hanno cambiato il mondo-, Roger è discendente diretto di quel leggendario Isacco Abravanel che nel 1492 tenne testa a Isabella la Cattolica e Ferdinando d’Aragona, e che tentò il tutto per tutto pur di scongiurare l’editto di espulsione degli ebrei dalla Spagna. Consulente d’azienda, per 35 anni Abravanel è stato nello staff dirigente della McKinsey Italia, ha salvato la compagnia El Al dal fallimento e creato la McKinsey in Israele, 10 anni fa. Oggi siede nei board di Luxottica, del colosso farmaceutico Teva, della Banca Nazionale del Lavoro, della finanziaria Clessidra, dell’Istituto Italiano di Tecnologia ed è presidente dell’INSEAD Council italiano. Regole: anche per questo nuovo saggio lei dice di aver attinto al sistema di valori ebraico... Darsi le giuste regole e seguirle, ci aiuta a vivere meglio. Non solo: è un buon affare, conviene sempre. L’ebraismo è pieno zeppo di regole e per ciascuna c’è un senso profondo, che connette il fare con il perché del fare. Senza regole, o con regole sbagliate, non si sviluppa niente, né la spiritualità, né l’economia, né la personalità. Senza regole, governare una società sempre più complessa, dove i servizi hanno un peso crescente rispetto ai prodotti, è impossibile. Ed è perché priva di regole che oggi l’Italia è al palo, con un’economia che non riparte. Senza contare poi i notori vizi storici: il familismo amorale, il sistema delle raccomandazioni, il mal di merito ovvero l’assenza di meritocrazia che premii i migliori. Qual è il suo rapporto col il mondo ebraico e l’ebraismo? Non sono mai stato educato da osservante ma da tradizionalista e confesso, fino a 50 anni consideravo me stesso un ebreo del Kippur, dall’osservanza episodica e minimale. Poi, le cose sono cambiate. Per questioni di business, ho dovuto andare più volte in Israele: da allora coltivo con Israele un legame emozionale e affettivo che cresce sempre più. Se fossi più giovane andrei subito a viverci. C’è un legame tra il suo lavoro e la sua educazione ebraica? Sì, in particolare nei due libri che ho scritto. L’elaborazione di Meritocrazia, mi ha fatto riscoprire le mie radici ebraiche e i valori ebraici tramandati dalla mia famiglia. Anche alla base del mio secondo libro, Regole, c’è il sistema ebraico di valori sociali e la sua trasmissione: non potendo basarsi sulla proprietà l’ebraismo ha puntato sull’ingegno, sulla formazione e sull’education. Non a caso dedico Regole ai nostri figli, “augurandomi che li aiuti a comprendere che rispettare le regole può essere un buon affare anche per loro”. Credo che l’ebraismo sia molto di più di un sistema di norme etiche ma qualcosa che ti aiuta a vivere meglio. Un esempio? Mio padre è morto 10 anni fa e per la prima volta ho recitato il kaddish: un inno alla vita e alla grandezza del divino, che ci ricorda la nostra limitatezza, perché tu non sei Nulla e ti annulli in Lui. Il fatto poi che per recitare il kaddish ci debba essere un minian, 10 persone che si stringono a te anche se non ti conoscono e vengono lì per non farti sentire solo, beh trovo questo straordinario. Vado nello stesso tempio dove andava mio padre, tra quelle stesse mura recito il kaddish e mi sento subito in comunicazione con lui. Mi siedo al posto dove egli stesso si sedeva e penso a quando mio figlio Davide reciterà il kaddish per me. Mio padre se lo chiedeva sempre: che cos’è che conta nella vita di un ebreo? La giustizia e l’educazione, la formazione, il bagaglio di conoscenze. Noi ebrei, mi diceva, non abbiamo mai avuto degli assett, non potevamo intraprendere la carriera militare né possedere la terra. Quindi dobbiamo essere educated, possedere la formazione nonché conoscere e praticare la giustizia civile. Mio padre aveva un sentimento ebraico fortissimo e mi ha sempre detto che puntare su ciò che si merita -e non su ciò che si ha o si possiede-, è uno dei pilastri dell’ebraismo. Ai giovani oggi dico che l’ebraismo è importante perché ti spinge a cercare l’eccellenza, a essere felice e a cercare il meglio per te. Essere educated significa in fondo estrarre il meglio da te stesso. Non diventare dei geni della finanza o della letteratura ma possedere le cosidette competenze della vita, essere capaci di scoprire per che cosa siamo destinati e interagire con gli altri, trovare la propria strada e percorrerla al meglio delle proprie capacità.Mio padre mi ha insegnato a perseguire lo sviluppo di me stesso, insegnandomi che la famiglia rappresenta sì un vincolo ma soprattutto un supporto: vai per le vie del mondo, mi diceva, io ti guarderò da lontano e se avrai bisogno di me ti volterai e io sarò lì. Anche per mia madre è così: una donna generosa, che ha saputo “lasciarmi andare”. Mi diceva: se uno non va per la sua strada non saprà mai quanto vale. Ancora oggi io conto sempre su mia madre, sul suo amore disponibile che mi consente di prendermi serenamente i miei rischi.Lei spesso esprime posizioni radicali circa la struttura delle comunità ebraiche italiane...Le Comunità in generale e quindi anche quella ebraica, sono strutturate secondo regole vetuste, risalenti, pochi lo sanno, addirittura all’epoca fascista. Inoltre spesso il problema è che le leadership comunitarie sono lontane da logiche no profit e più inclini a seguire quelle politiche e di autopromozione. Trovo superato il sistema delle tasse comunitarie. Ciascuno dovrebbe invece dare un contributo mirato e non far finire tutto nello stesso calderone senza sapere dove vanno i propri soldi. Che cosa si intende con il termine struttura comunitaria? Dei servizi alla persona, e poi cultura, culto, welfare, scuola, casa di riposo, cimitero... A me piacerebbe avere una Comunità di servizi, con un insieme di Fondazioni che si occupino di ciascun settore. Propongo una trasformazione radicale dell’assetto comunitario, gestito da persone committed, messe lì per fornire un servizio e non per apparire nelle foto accanto al sindaco, al papa, al politico di turno. L’attuale sistema di tasse va sostituito con contributi mirati, direzionati: ciascun iscritto alla Comunità dovrebbe poter scegliere a chi e a che cosa dare, se non tutto, almeno parte del proprio contributo.E poi basta con la scuola come servizio sociale. Ogni scuola dovrebbe rendere trasparente la propria performance e i propri risultati. Come? Con l’analisi comparata dei test Invalsi ad esempio tra scuole medie della stessa città. Private o pubbliche che siano. O ancora con i test PISA. Trovo intollerabile pagare con le tasse comunitarie un servizio di cui non conosco la qualità. Ad esempio, per la nostra scuola, la battaglia si vince puntando a farne la miglior scuola di Milano, come è accaduto altrove, ad esempio a Sydney, in Australia, dove la scuola ebraica ha parametri di eccellenza assoluti. Vivo la kehillà di Milano in modo ambivalente: se da una parte sento solidarietà e senso di tzedakà, dall’altro mi sento un cittadino globale spinto a cercare l’eccellenza e l’incontro con la società italiana. Penso che la Comunità, me stesso compreso, dovrebbe fare di più per i ragazzi che sono troppo abbandonati a se stessi. La scuola non è un collante sufficiente, una volta usciti, molti si disperdono e il loro sentimento di appartenenza alla kehillà e anche all’ebraismo, impallidisce.Fiona Diwan http://www.mosaico-cem.it/

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