martedì 21 dicembre 2010


Gioele Dix: l’ironia della parola, sempre sacra, sempre profana Il mio ebraismo

Eclettico, trasversale, attore drammatico e comico per il quale la parola non è mai fine a se stessa. Questo è per David Ottolenghi, alias Gioele Dix, il retaggio della propria identità di ebreo milanese: fra riflessioni sulla Bibbia e ricordi di scuola, dell’Hashomer Hatzair, di ex fidanzate. Come racconta oggi nel suo primo romanzo Anni fa era il cinico “automobilista incazzato” del cabaret Zelig, una delle tante facce che Gioele Dix, al secolo David Ottolenghi, ha indossato nella sua carriera di attore. Oggi ci fa di nuovo sbellicare con il suo primo romanzo, la storia di un bel quarantenne che, realizzando il sogno universale di ogni maschio, invita tutte le ex, -fidanzate, mogli, donne fuggitive, grandi amori e avventure di una notte-, alla sua festa di compleanno. Attore versatile e dallo humour potente, artista eclettico, nella sua lunga carriera ha saputo alternare repertorio classico a ruoli di solista comico, a parti da star al cinema e in tv. Con l’uscita del suo romanzo Si vede che era destino (Mondadori), Dix ci racconta la sua identità ebraica.Il tuo nome è David Ottolenghi. Perché, come nome d’arte, hai scelto un nome biblico? Sono sempre stato un discreto conoscitore della Bibbia, e mi è sempre piaciuta la figura di Gioele, profeta minore, che ha scritto nella sua vita un’unica profezia, neanche poi così straordinaria, letterariamente parlando: ha predetto un’invasione di cavallette, che all’epoca era un po’ come dire “ci sarà nebbia in val Padana”. Rispetto però ai grandi profeti, come Isaia o Ezechiele, Gioele ha un profilo più basso e mi piaceva per questo. E poi, passare da un re come David a un profeta come Gioele, era fare un salto verso l’alto. Il cognome Dix viene invece da Otto Dix, il pittore espressionista tedesco, antimilitarista e antinazista, che a suo modo ha previsto la barbarie che di lì a poco sarebbe avvenuta. Mi ha conquistato l’accostamento fra il profeta antico e l’artista tedesco più moderno, e anche il suono che ne usciva era piacevole. E poi molto lo ha fatto anche il caso: era il 1987, avevo un provino a Zelig con Gino e Michele, e avevo segnato su due colonne nomi e cognomi, alla ricerca dell’accoppiamento più bello. Che influenza ha avuto -e ha oggi- l’identità ebraica sulla tua professione di attore comico? Sicuramente ha una grande influenza sia sul piano culturale sia su quello della sensibilità. Una certa mia ironia è tipica del modo di pensare ebraico, il bisogno di porsi sempre in modo trasversale e di vedere le cose da ottiche diverse, non omologate quindi più trasgressive. Nell’ebraismo la parola è sacra, è la legge. Nel lavoro di attore è la stessa cosa: anzi, essa non si limita al suono, ma addirittura diventa corpo. Nella Bibbia la narrazione non è mai fine a se stessa, ma rimanda sempre a qualcos’altro: ed è questa la grande forza di questo Libro. E anche nel rapporto con Dio la parola svolge per gli ebrei una funzione centrale: essa è mediatrice di una relazione con il divino che è vivace, perché nell’ebraismo si discute di tutto, e spesso anche con Lui: c’è rispetto ma non timore reverenziale. Penso che sia proprio questo tipo di approccio, il fatto di entrare “a gamba tesa” su un argomento, discutendo e cercando di capire, ad avermi maggiormente influenzato nel mio lavoro. Ciò era molto evidente nello spettacolo La Bibbia ha (quasi) sempre ragione, in cui leggevo parte della Genesi e la storia dei profeti. È stato uno show che ha avuto grande successo e che mi ha fatto capire che queste antiche parole e argomenti sono vivi anche per gli altri. Per secoli, nella cultura cattolica, la Bibbia è stata solo per addetti ai lavori, tenuta lontana dal popolo. Nell’ebraismo, invece, e in altri gruppi cristiani, il testo sacro deve essere a stretto contatto con la gente. Mi piace l’immagine della Bibbia sporca di sugo, a dimostrazione che la si studia davvero.Come si viveva l’ebraismo in casa Ottolenghi? Hai ricordi specifici? La mia è sempre stata una famiglia di credenti, ma non di osservanti stretti: tradizionalista, insomma, che teneva molto alle feste. Io sono cresciuto con questo rispetto molto radicato in me, come un qualcosa di indiscutibile che fa inevitabilmente parte del mio essere. La mia famiglia durante la guerra si è salvata in maniera rocambolesca scappando in Svizzera, e qualche segno di questa esperienza è ovviamente rimasto. Originaria del Piemonte, si è poi stabilita a Milano, e già mio nonno parlava milanese. Mi ricordo che quando parlava di un ebreo, che aveva conosciuto sul lavoro -lavorava nel campo della seta - mi diceva: “è uno della tua parrocchia”. E di lui ricordo la grande ironia e la sua visione profonda e un po’ sghemba delle cose: atteggiamenti, questi, tipicamente ebraici. Per qualche anno hai frequentato la Scuola Ebraica: hai qualche ricordo curioso da raccontare? Ho seguito le elementari alla Scuola ebraica quando ancora la sede era in Via Ippolito Nievo: quanti topi c’erano! Ho un’immagine della bidella che insegue un topo con una scopa. Poi siamo passati in via Eupili e infine in via Sally Mayer. Ricordo con grande affetto la mia morà, Clara Kopciowski, con cui ho ancora un ottimo rapporto: una maestra di grande rigore, con una capacità di ascolto davvero unica. Ma ero molto legato anche a rav Elia Kopciowski. Un episodio buffo: una volta ero stato punito dalla morà assolutamente ingiustamente: per me era impensabile farla arrabbiare, e allora mi misi a piangere con la testa sul banco. Solo che sotto c’era un quaderno con una copertina rossa, che lasciò il colore sul mio viso: quando mi alzai, tutti si spaventarono perché sembravo sporco di sangue, ma poi finì in grandi risate. E poi ricordo le lezioni di Schaumann, all’epoca preside della scuola: nelle sue lezioni aveva un modo unico di raccontare la Torà, personalizzando la parola di Dio, facendo anche esempi concreti, tutto con una grande ironia. Sicuramente quello che ho ricevuto alla scuola ebraica, seppure solo alle elementari, è rimasto in me con un imprinting indelebile. C’è poi stata un’esperienza di tre anni all’Hashomer Hatzair, fra i 15 e i 18 anni. Che ricordi ne hai? È stata per me un’esperienza molto bella e importante, direi decisiva per consolidare il mio senso di appartenenza al popolo ebraico: certo, era già radicato in me, ma viverlo in questa forma collettiva e di scambio è stato determinante. Il movimento giovanile è una scuola di vita, di ascolto e di dialogo, che ti permea per tutta la vita. Ricordo con un affetto particolare il nostro shaliach di allora, David Ben Israel, un Rabbinovich di Buenos Aires che aveva fatto l’alyià nel 1947 e aveva partecipato alla costruzione del kibbutz Yehiam. Un episodio che non scorderò mai risale agli anni Ottanta: in una lettera -ci scrivevamo spesso-, una volta mi disse: “Ti annuncio che l’era del kibbutz è completamente finita. Il motivo? Dalla prossima settimana la riunione del kibbutz è stata spostata al martedì, perché il lunedì in televisione c’è Dallas”. Come vivi ora il tuo essere ebreo? Personalmente ho un legame molto forte con l’ebraismo. Pur non essendo molto praticante, sono convinto che la cultura religiosa sia una parte irrinunciabile dell’essere ebreo, e che nella storia è stato proprio grazie a lei che il popolo ebraico si è tenuto unito nelle sue mille vicissitudini. Allo stesso tempo, però, è altrettanto importante che vi sia anche una parte di ebraismo più aperto all’ambiente esterno. Io stesso mi sono sempre “mischiato” al mondo non ebraico. Sono infatti convinto che queste siano due dimensioni fondamentali dell’ebraismo in Italia, e che una abbia inevitabilmente bisogno dell’altra. Credo fermamente che nel popolo ebraico ci sia spazio per ogni nuance possibile: ognuno può cercare la sua strada, in virtù di una grande libertà di pensiero. Questo è anche l’approccio della mia famiglia di oggi. Mia figlia, ad esempio, oggi venticinquenne, ha fatto a suo tempo il Bat Mizvà per sua volontà e convinzione: ovviamente ero felice che volesse farlo, ma non l’ho spinta io, è stata una sua libera scelta. Anzi, la prendevo in giro: “ma a che cosa ti serve?”, le chiedevo. Io non credo nella ritualità fine a se stessa; credo piuttosto nel gesto di autodeterminazione che sta alla base di ciascuna nostra azione. Ilaria Myr http://www.mosaico-cem.it/

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