mercoledì 12 gennaio 2011


Maalè Adumim:il deserto di Giuda diventato verde con il lavoro dei "coloni"
Si avviano le celebrazioni del 150° anniversario dell’unità nazionale e veniamo coinvolti in iniziative pubbliche di ogni tipo, commemorative e di studio. La sfida è nuovamente lanciata a chi sul territorio rappresenta le comunità ebraiche e si deve barcamenare fra retorica risorgimentale e realtà presente. I testi su cui documentarsi non mancano e sono in progettazione buone e interessanti iniziative di divulgazione (mostre, libri, numeri di riviste) su come gli ebrei hanno partecipato al processo di nazionalizzazione della società italiana. A me pare che, al di là dei troppi impegni pubblici cui saremo invitati a presenziare, questa sia una buona occasione per riflettere sulle nostre plurime identità (politica, etnica, geografica, religiosa, di genere). Propongo qualche punto da cui partire, senza pretesa di essere esaustivo:1) Non credo sia corretto affermare che sia troppo debole e indefinita l’espressione “ebrei italiani”, a volte presentata nella forma sarcastica di “ebrei all’italiana”. Esiste una secolare e storicamente riconoscibile tradizione che mi pare ingiusto disconoscere, che fa dell’essere ebrei “in Italia” un’esperienza specifica della quale si può a ragione andare orgogliosi: un particolare rapporto con la civiltà italiana (cultura, lingua, tradizione gastronomica, mentalità) sono parte integrante della nostra storia che non merita di essere rinnegata.2) Gli ebrei hanno salutato generalmente con gioia e partecipazione l’emancipazione civile ottocentesca (ricordiamolo, però, concessa sempre dall’alto), e ne hanno constatato con amarezza il repentino fallimento nel 1938 e poi con maggior durezza hanno affrontato la prova della persecuzione dopo il 1943: questi fatti non possono non aver inciso nel loro modo di essere oggi da un lato “comunità di minoranza”, e nel contempo parte di una “comunità nazionale allargata”. In questa prospettiva l’interrogarsi oggi sul significato di appartenenza nazionale e su cosa intendiamo quando ragioniamo attorno a un nuovo patto di cittadinanza non sarà inutile. Sicuramente porterà a risposte diverse da quella proposta da Arnaldo Momigliano che ancora nel 1933 affermava che “la formazione della coscienza nazionale italiana degli ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei piemontesi o nei napoletani o nei siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo”.3) La demografia ci dice che gli ebrei del secondo dopoguerra in Italia sono diversi da quelli del 1861 o del 1945: in decrescita quelli italiani, numerosi quelli immigrati dal bacino del Mediterraneo (Libia, Egitto, Turchia, Libano e in seguito dalla Persia). A lungo ufficialmente “apolidi”, sono tutti portatori di esperienze storiche spesso dure, di sradicamento e spaesamento, e hanno vissuto in Italia la stessa sorte fatta di diffidenza e di relativamente non amichevole accoglienza che troppo spesso questo paese riserva agli immigrati. Soprattutto, sono figli di un vissuto differente: ragionare insieme della memoria del Risorgimento, della Resistenza antifascista, a volte della stessa Shoà può essere molto impegnativo e costituisce un terreno di sfida aperta per la costruzione di un’identità nazionale riconoscibile e, nuovamente, di un condivisibile concetto di cittadinanza.http://www.moked.it/ Gadi Luzzatto Voghera,storico

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