sabato 12 febbraio 2011



parco Timne
L'Egitto, Obama e noi

Le vicende egiziane stanno comprensibilmente mettendo in allarme tutto il mondo ebraico, sia la parte che vive in Israele, sia chi abita la diaspora, universi, del resto, uniti da un vincolo indissolubile e da un comune destino. Lo scenario egiziano si interseca con i profondi, per non dire epocali, cambiamenti impressi dalla nostra fase storica, che stanno rideterminando gli equilibri politici mondiali. Dall’avanzata dei cosiddetti Paesi emergenti (ma ormai “emersi”) come India, Cina o Federazione Russa, alla novità impressa alla politica statunitense dalla figura di Barack Obama, catalizzatore delle speranze di un nuovo equilibrio mondiale, che l’amministrazione W. Bush non è, in fine, stata in grado di costruire. Vorrei, qui, proporre una riflessione a partire da un articolo di Fiamma Nirenstein, apparso su “Il Giornale”. Onde sgomberare il campo da qualunque riferimento personale, voglio subito dichiarare il rispetto per l’esperienza di vita in Israele della dottoressa Nirenstein durante anni molto, molto difficili. Cercherò, quindi, di affrontare gli argomenti motivando il mio dissenso politico. Nell’articolo citato, la Nirenstein critica apertamente la politica estera del governo statunitense, reo di non aver assunto una posizione decisa nei confronti, non solo delle ultime vicende, ma di tutta la questione mediorientale, strizzando l’occhio a regimi mossi da un autoritarismo senza scrupoli. Contraddizione ancor più grave, se si tiene conto che la figura dello stesso Obama ha incarnato come nessun altro leader mondiale l’ideale dei diritti umani, tanto da ricevere un inaspettato e probabilmente immeritato Nobel per la Pace nel 2009. Penso che l’articolo de “Il Giornale” punti il dito su una contraddizione che effettivamente esista nella politica estera statunitense, da un lato impegnata ad abbandonare una politica di esportazione della democrazia di sapore vagamente imperialista, dall’altro sostenitrice dei diritti civili e delle libertà fondamentali di tutti gli individui. Vediamo, quindi, un Obama che accoglie Hu JinTao a Washington con gli onori riservati a un imperatore (si è visto addirittura Joe Biden andarlo a prendere alla scaletta dell’aereo), ma che, contemporaneamente, lamenta l’assenza di Liu Xiaobo alla cerimonia di consegna di quello stesso Nobel che l’anno precedente era toccato proprio a lui. Troviamo, come dice la stessa Fiamma Nirenstein, una presidenza americana impegnata da un lato a sostenere i manifestanti egiziani, dall’altro ad aprire la porta a regimi islamisti che predicano la sottomissione della donna e la riduzione della libertà di ciascuno. Rilevata la contraddizione, credo, però, sia il caso di rifletterla, evitando il rischio di interpretare le dinamiche attuali con categorie di “scontro di civiltà”, che, per la velocità con cui si muove oggi la storia, sembrano già superate e non più capaci di offrirci un quadro veritiero di quanto accade oggi nel mondo, non solo quello arabo. Obama ha ereditato il fallimento di un paradigma politico che interpretava la democrazia occidentale come naturale sbocco di ogni civiltà, in quanto indissolubilmente legata a quella libertà verso cui ogni individuo anela. Mi permetto di definire la politica di Bush fallimentare, non per un giudizio ideologico sulla validità o meno della nozione di “diritti umani”, ma valutando più modestamente le sue conseguenze, a partire dal lascito di due guerre da cui non si sa come uscire e che hanno fornito ulteriore pretesto a gruppi di matrice islamista per radicalizzare lo scontro con l’Occidente in vista di una lotta egemonica mirante ad accaparrarsi le masse arabe. Partendo da qui, Obama ha tentato di condurre una sorta di esame di coscienza della cultura occidentale, riesaminando la sua pretesa di superiorità e ponendosi nei confronti delle altre nazioni in un atteggiamento dialogico, sostenuto da una curiosità intellettuale che afferma implicitamente la validità di culture secolari, per non dire millenarie. Un atteggiamento alimentato ulteriormente dalla sua biografia, che ne ha fatto un uomo attraversato da diverse culture, da quella statunitense, a quella keniota, passando per l’esperienza indonesiana. Sembrava una strada già tracciata, che avrebbe risolto i problemi lasciati aperti dall’amministrazione precedente e aperto nuovi orizzonti diplomatici. Le cose, però, si sono presto rilevate più complicate del previsto, vedendo come la legittimazione di altri universi culturali entrava in palese contraddizione con quel rispetto per tutti gli individui che animava quella stessa scelta politica. È qui che, a mio parere, Obama è entrato in imbarazzo, oscillando fra polarità apparentemente inconciliabili. Mi pare, però, che la politica estera statunitense cominci a ricevere una prima elaborazione, proprio a partire da queste difficoltà: l’Occidente è disposto a rivedere l’atteggiamento culturale che si è posto alla base delle politiche imperiali degli ultimi due secoli (ma che altro è il processo di evangelizzazione del mondo se non l’anticipazione delle battaglie prima napoleoniche e poi bushane?) e ad offrire il proprio contributo per la costruzione di una nuova fase diplomatica, ma è chiaro che contribuirà a questo obiettivo offrendo la propria esperienza di vita che ha sostenuto la legittimità della libertà di ciascuno. Si tratta, come per ogni area del mondo, non di un astratto dato culturale che può rimuoversi con uno schiocco di vita, ma di una convinzione profonda, prodotta da 2500 anni di storia. Ma un ebreo sa bene che gli anni sono 5771. Certo, si tratta di una politica tutta da elaborare, ma abbiamo alternativa alla luce del mondo attuale? Del resto, questa situazione non mette in scena contraddizioni della nostra cultura su cui i filosofi (e ce ne fossero oggi disposti ad un impegno politico in questo senso) dibattono da secoli? Non è, quindi, un problema dettato da contingenze storiche, ma una questione strutturale che le attuali vicende riportano alla luce. Attenzione a far prevalere comprensibili rabbie personali sulla capacità di analisi. È un errore che pagherà chi verrà dopo di noi. Davide Assael, ricercatore http://www.moked.it/

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