martedì 22 febbraio 2011


Risorgimento e identità ebraica

Al vivace dibattito identitario delle ultime settimane su questa pagina andrebbero aggiunti due elementi significativi. Il primo è che al di là della causa occasionale - il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia - il discorso sull'essenza dell'identità ebraica non può essere limitato a una circoscrizione territoriale ma è, per definizione, globale. L'ambito territoriale snatura il problema e lo svilisce a una competizione gerarchica fra il bene dell'essere ebreo e il bene dell'essere italiano. Più importante è capire se l'emancipazione, l'integrazione, e l'assimilazione degli ebrei in Italia abbiano avuto caratteri propri e differenti da quelli di altri paesi. Lo stesso discorso può essere fatto in un contesto francese, tedesco, americano, o israeliano (temi ampiamente discussi da Anna Foa nei suoi scritti). Anzi, proprio perché è essenziale capire quali siano gli apporti delle diverse culture regionali all'identità ebraica e quali siano gli apporti della cultura ebraica alle diverse realtà regionali, e in che misura gli uni siano diversi dagli altri, il limitarsi alle modalità in un paese (in questo caso l'Italia) finisce per creare un discorso non sull'identità ebraica ma su quella italiana. Discorso certo attuale, importante e non meno avvincente, ma diverso (e sul quale Gadi Luzzatto Voghera lancia un'emblematico segnale quando scrive della "povera Italia che abbiamo la ventura di vivere". Ma attenzione: vivere in Italia è un privilegio, non un obbligo). Il secondo elemento è quello della trasmissione dell'identità da una generazione all'altra. Molti interventi nel dibattito sembrano orientati sul diritto e sulla capacità dell'individuo di trovare la propria matura e soddisfacente espressione identitaria ebraica, nel contesto societario generale, e al di là di supposte influenze ebraiche più integrali (per usare il termine che fu caro a Alfonso Pacifici). In questa riflessione critica, il rischio che la manifestazione identitaria dopo aver raggiunto il momento ritenuto ottimale per la persona, sia anche il punto terminale di una lunga sequela storica non mi sembra sia stato sufficientemente chiarito. Pensiamo alla vecchia metafora dell'albero: il tronco produce rami che sono più sottili, dunque un po' diversi, ma hanno circa la stessa consistenza di corpo legnoso percorso da linfe vitali; e i rami producono foglie che nel creare una brillante sintesi ecologica con l'ambiente circostante sono ancora percorse dalle stesse linfe vitali e fanno sempre parte del fenomeno albero; ma le foglie non producono nulla, anzi cadono quando diventano secche. Il tronco produrrà sempre foglie, le foglie non produrranno mai tronco (per lo meno nel ciclo naturale di un anno). Perché ci siano sempre foglie, è necessario che ci sia sempre tronco. Perché l'ebreo possa trovare la sua sintesi ottimale con il contesto sociale e culturale in cui si trova, ha bisogno della conoscenza diretta e del riferimento permanente alla cultura di origine. Persa la quale, interviene l'assimilazione, dopo la quale rimane il nulla. Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme, http://www.moked.it/

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