martedì 5 aprile 2011


Herzog: dalla Libia alla Siria, tutti i rischi e le opportunità per Israele «Lo Stato di Israele vede sia delle opportunità positive sia dei pericoli insiti nell’ondata di rivolte che stanno attraversando il Medio Oriente. La democrazia nei Paesi arabi può produrre risultati molto diversi, la storia ce lo insegna. Proprio per questo, la mancanza di iniziativa del governo israeliano non è stata la scelta più adeguata: questa occasione non va sprecata e occorre intensificare i nostri sforzi a favore della pace». Ad affermarlo è Michael Herzog, editorialista del quotidiano Haaretz, generale della riserva dell’esercito israeliano ed esponente di spicco del Washington Institute for Near East Policy. Herzog, in che modo il governo israeliano valuta quanto sta avvenendo nel mondo arabo? Israele vede sia delle opportunità sia dei rischi in ciò che sta avvenendo attorno a noi. La maggior parte degli israeliani ha sempre pensato che la democrazia nel Medio Oriente sia un bene sia per la pace che per la stabilità. Per questo, Israele ritiene che ciò che sta avvenendo intorno a noi abbia un potenziale positivo. Dall’altro lato, vede sempre i rischi insiti nella transizione, poiché ci sono moltissime forze antidemocratiche nel Medio Oriente, a cui piacerebbe dirigere la transizione lontano dalla democrazia. E Israele con la sua propria storia è consapevole di questo forse più di altri e desidera che la transizione sia guidata nel modo giusto. Israele finora sembra essere rimasto a guardare senza fare nulla. È davvero così? Ciò che è avvenuto in Tunisia, Egitto e Siria non riguarda in prima battuta Israele, ma le situazioni interne di questi Paesi e le loro richieste di libertà, trasparenza e buongoverno. Israele non ha quindi la sensazione di un rischio imminente che lo riguardi, perché chi protesta è concentrato innanzitutto su questioni di politica interna. È vero però che c’è una mancanza di iniziativa da parte di Israele, almeno da un punto di vista: quello degli sforzi per la pace. Oggi ci troviamo in una situazione per cui non stiamo più compiendo alcuno sforzo per la pace, né negoziati con i palestinesi. Dal mio punto di vista questa è una vera sfortuna, e ritengo che tutti i partiti vi abbiano contribuito. Ritengo che sarebbe un bene se il governo israeliano rompesse gli indugi con una nuova capacità di iniziativa che finora non abbiamo ancora visto. Ma va anche detto che la stessa amministrazione Usa attualmente non ha le idee chiare su che cosa vada fatto. Che tipo di iniziative dovrebbe intraprendere Israele? Quando sono incominciate le rivoluzioni del Medio Oriente, la prima cosa che ho sperato è che dessero più energia agli sforzi per la pace tra Israele e Palestina, che ritengo sarebbero l’opzione migliore per entrambe le parti in causa. Migliore soprattutto delle azioni unilaterali intraprese sia dai palestinesi sia dagli israeliani. Tutto ciò ha portato a un punto fermo, tanto che ci sarebbe bisogno di un aiuto dall’esterno, perché attualmente c’è una mancanza di fiducia reciproca tra le parti. In che senso la situazione attuale presenta delle opportunità positive? In primo luogo perché è un bene per i Paesi arabi il fatto che ci sia un movimento dal basso con persone che domandano dei diritti fondamentali. Inoltre, in una fase di grandi riforme, israeliani e palestinesi dovrebbero fermarsi un momento e riflettere sulle loro relazioni reciproche. So che la situazione di Israele e Palestina è molto diversa da quella di Egitto e Tunisia, ma le richieste dei manifestanti riguardano anche un Medio Oriente migliore. Allora questo Medio Oriente migliore includerebbe anche il processo di pace tra Israele e Palestina. Lei ha scritto su Haaretz: «La rivoluzione iraniana è davvero l’unico modello possibile? O forse l’attuale crisi contiene in sé la promessa di opportunità diverse?». È riuscito a trovare una risposta? Se guardiamo alla storia recente, ci troviamo di fronte a esempi molto diversi. Da una parte la rivoluzione in Iran del 1979 che ha portato al potere Khomeini e le elezioni del 2006 in Palestina vinte da Hamas. Ma c’è anche la rivoluzione del 1998 in Indonesia, che ha portato alla democrazia e a uno Stato moderno. Nel caso attuale, è ancora molto presto per giudicare come andrà a finire. Molto dipenderà dal supporto che la comunità internazionale fornirà alle forze democratiche, assicurandosi che la transizione non sia agitata dalle forze anti-democratiche. Ma questo è possibile solo con un intervento militare come in Libia, o esistono delle modalità più adeguate? Di sicuro esistono altre possibilità. Innanzitutto, Paesi come Egitto e Tunisia da un punto di vista economico sono in una buona posizione, mentre altri hanno bisogno dell'assistenza dell'Occidente. Anche se ci si deve assicurare dell'uso corretto degli aiuti. Inoltre è possibile predisporre dei programmi per fare avanzare l’idea di democrazia, i diritti umani fondamentali e un sistema inclusivo che consenta a chiunque di partecipare al processo politico. In quali dei Paesi del Medio Oriente è più probabile che si affermi la democrazia? Sono tante le variabili in campo. Tuttavia, in Egitto non mi aspetto che i Fratelli musulmani diventino il partito al potere. È molto più probabile che entrino a fare parte della coalizione di governo pur senza guidarla. In Libia c’è una comunità divisa e si rischia uno stato prolungato di guerra civile. E tra gli stessi ribelli, alcuni hanno una mentalità laica, altri sono islamisti. Ritengo quindi che la Libia rimarrà divisa per un periodo di tempo abbastanza lungo. In Siria è tutto da vedere se Assad cadrà. Ma nel caso in cui ciò avvenisse, non penso che i Fratelli musulmani si impadronirebbero del potere: probabilmente salirebbe al governo una maggioranza sunnita con un’impostazione islamica moderata. In ogni caso, non mi aspetto che la maggior parte di questi Paesi, incluso l’Egitto, si trasformi in una democrazia completamente simile a quelle occidentali. E che tipo di democrazia si aspetta? Alcuni la chiamano «democrazia illiberale», nel senso che le persone hanno diritto di voto, ma il regime è semiautocratico, come in Turchia, dove il governo sta gradualmente assumendo potere sulla magistratura, sulla stampa, sull’esercito, utilizzando il potere per dirigere il processo politico in una sola direzione. Tornando alla Siria, che cosa ne pensa di Assad? È un dittatore dal pugno di ferro, ma penso che andrebbe messo alla prova. Se non cadrà per le rivolte, Israele dovrebbe proporgli di firmare la pace. In questo modo lo costringeremmo a scegliere tra noi da una parte e Iran ed Hezbollah dall’altra. Tentare non ci costerebbe nulla. I nuovi insediamenti dei coloni israeliani nella West Bank stanno facendo discutere. Come li giustifica? Non mi risulta che ci siano dei nuovi insediamenti di coloni israeliani nella West Bank. So che il governo israeliano di recente ha consentito la costruzione di 700 unità abitative in insediamenti già esistenti. Più in generale, si tratta di un problema che richiede una chiara politica di controlli da parte del governo, mentre purtroppo questo negli anni recenti non è stato fatto in modo adeguato. Anche se penso che il governo l'anno scorso abbia fermato le attività degli insediamenti per dieci mesi. Sfortunatamente questo non è stato sufficiente per portare all'avvio di colloqui di pace. Ritengo comunque che occorra provvedere ai bisogni di sussistenza fondamentali dei coloni, limitando qualsiasi attività israeliana al minimo indispensabile. Nulla quindi in più di quanto possa essere fatto senza minare gli sforzi a favore della pace. (Pietro Vernizzi) 4 aprile 2011 http://www.ilsussidiario.net/

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