martedì 26 aprile 2011



Il Medio Oriente brucia e Fatah si arrocca
Il Medio Oriente brucia, le piazze arabe insorgono contro raìs e colonnelli corrotti al potere da troppo decenni, e in Palestina che cosa succede? Fatah, lo storico partito-milizia di Yasser Arafat che governa l’Autorità nazionale palestinese da quando è stata creata, si sta arroccando. Solo così, almeno questa è la mia opinione, si spiega la richiesta delle dimissioni del premier Salam Fayyad recentemente avanzata da un gruppo di esponenti di Fatah, il partito di Abu Mazen, nonché fazione principale dell’Olp, che formalmente guida l’Anp ma di fatto ha il controllo solamente sulla Cisgiordania (nell'immagine il governo dell'Anp riunito a Ramallah). Ed è un peccato, perché se ci sono due cose, nel grande caos mediorientale, che sembrano essere venute a galla sono proprio le seguenti. Uno: gran parte delle popolazioni arabe hanno dimostrato di non essere più disposte a tollerare regimi corrotti, illiberali, vecchi e polverosi. Due: nonostante lo stallo del processo di pace tra Stato israeliano e Anp, nonostante la debolezza di Fatah e l’avanzare di gruppi estremisti come Hamas e Jihad islamica, il primo ministro palestinese Fayyad era riuscito a fare qualcosa, facendo crescere se non altro il prodotto interno lordo della Cisgiordania anziché andare a ingrassare le casse di partiti e milizie. Ex economista della Banca mondiale, si è rimboccato le maniche, lavorando sulla creazione di istituzioni e di infrastrutture, sulla lotta alla corruzione, sull’educazione e sulla formazione del know how necessario alla creazione di posti di lavoro, sull’economia e in particolare sull’attrazione di capitali stranieri. In altre parole, su tutto quello che viene normalmente catalogato nell’insieme di nation building. Risultato? Stando alle stime del Fondo monetario internazionale, il Pil della Cisgiordania è cresciuto di nove punti percentuali nella prima metà del 2010. Per questo si è meritato il soprannome di “Ben Gurion della Palestina”, perché in sostanza lui sta cercando di fare quello che David Ben Gurion, padre fondatore di Israele, fece negli anni Trenta e Quaranta: ossia costruire una nazione autonoma e funzionante prima di dichiarare la nascita di uno Stato. Alcuni, per utilizzare termini assai più terra terra, direbbero che è uno di quei leader che “anziché piantar grane, piantano patate.” E pensare che la nomina di Fayyad era nata proprio da una presa di coscienza da parte di Fatah, che finalmente si era resa conto (forse con qualche lustro di ritardo) di avere un problema di credibilità. In altre parole, da circa un decennio a questa parte, Fatah ha un problema di fiducia popolare: è vista da molti palestinesi, e a ragione, come una leadership vecchia e corrotta. Questo (ma non solo) ha permesso tra l’altro l’ascesa di Hamas, il gruppo terrorista nato da una costola dei Fratelli musulmani egiziani che controlla di fatto la Striscia di Gaza. In un certo senso, la nomina di Fayyad è nata da un’ammissione dei propri limiti da parte di Fatah. Il primo ministro indipendente è stato nominato da Abu Mazen, un po’ per fare contenta la comunità internazionale, un po’ per combattere la corruzione dilagante, e un po’ per cominciare (finalmente!) a costruire un embrione di Stato palestinese come si deve. Partendo dalle infrastrutture, non dalla politica, né dalle milizie e dall’esercito come invece usava nel mondo arabo vecchia maniera. Ora, Fayyad può piacere o non piacere. Alcuni nel mondo musulmano lo considerano troppo filooccidentale, cosa che può senza dubbio costituire un punto di debolezza nel momento in cui i negoziati con gli israeliani non stanno attraversando un periodo particolarmente felice. Però una cosa è certa: non è il classico raìs corrotto e attaccato alla poltrona da decenni. Lo stesso non si può dire dei molti membri di Fatah che adesso vorrebbero farlo fuori. Il punto, del resto, non è la poltrona di Fayyad in sé. La domanda da porsi, semmai, è se l’Autorità nazionale palestinese sta cogliendo o meno i segnali che stanno arrivando dalle piazze arabe. Se hanno compreso, anche solo in parte, che gli sconvolgimenti che si sono verificati in Egitto, Libia e Algeria, i tumulti che si stanno facendo sentire in Giordania e in Yemen, non nascono dal nulla. Il paradosso non è tanto che la dirigenza palestinese resista al cambiamento (sai che novità...), quanto piuttosto che non si stia rendendo conto (o così almeno pare) che questo cambiamento ormai è divenuto inevitabile. Che, per utilizzare l’espressione terra terra menzionata sopra, la piazza araba si è stufata dei leader che “piantano grane anziché piantare patate”. Carissimi dirigenti di Fatah, non è davvero questo il momento di arroccarsi su una leadership vecchia, corrotta e polverosa. Anna Momigliano, Pagine Ebraiche, aprile 2011

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