giovedì 28 aprile 2011



La Shoah, Israele e l’ebreo diasporico
Il Novecento è stato per l’ebraismo un secolo da dimenticare. La crisi che ha prodotto nella psicologia ebraica è una ferita che ci porteremo dentro per un tempo inimmaginabile; come se la storia non ci avesse già segnato a sufficienza l’animo e la mente, lasciando nel nostro inconscio collettivo lo sfregio delle sue cicatrici. Il Novecento ha confermato e ha legittimato in noi antichi sentimenti: sospetto, paura, sfiducia, tentazione di fuga, il pensiero a un passaporto sempre valido; e un senso di precarietà che da ansia si è nel tempo trasformato in consuetudine. A dare sicurezza all’ebreo, dopo la Shoah, ce lo diciamo di continuo, è stata la nascita dello Stato di Israele. Ma se Israele ha rappresentato una rinascita dopo la tragedia, la gioia di quella rinascita ha anche portato con sé qualche complicazione di vita e di sentimenti. La Shoah e Israele hanno costituito per l’ebraismo una complicazione del sentire. Shoah e Israele mettono l’ebreo incessantemente alla prova, lo costringono a un confronto che non ha soluzione. L’ebreo potrebbe, naturalmente, starsene tranquillo e pensare ad altro, scansando ansie e crisi di coscienza, ma così sarebbe un caso poco rappresentativo del popolo ebraico, e la cosa non gli piacerebbe affatto. Della Shoah – diciamocelo con un po’ di ironia – non ci è bastata l’immane catastrofe; da sessant’anni ce ne portiamo dietro, oltre al ricordo, anche le conseguenze, e chissà per quanto tempo ancora ci toccherà farlo. Tralasciamo per una volta i risvolti antisemiti del dopo-Shoah e guardiamoci dentro. La sua conseguenza più fastidiosa è quella rappresentata dalla filosofia della Shoah, da coloro cioè che si interrogano sugli aspetti teologici della tragedia, sull’indifferenza di Dio, sulla Shoah come punizione divina per l’ebreo trasgressore. Ma soprattutto, ci si interroga sulle modalità di trasmissione della sua memoria. Dovremmo ricordare la Shoah come uno dei tanti accadimenti della storia, privo di eccezionalità, un avvenimento compensato da altri avvenimenti, dalle purghe staliniste ad esempio, uno dei tanti eventi alternatisi nel procedere sconsiderato della storia dell’uomo? Lo si dovrà considerare nel tempo un puro incidente di percorso? Questo non ci sembra possibile, a noi questo non basta, anzi, ci dà altra angoscia, fa sanguinare ancor di più le ferite. E allora, dovremmo forse ricordare la Shoah come un’eccezione della storia, come un accadimento che ha riguardato solo e proprio noi? E chissà perché noi in particolare? Per quali metafisiche colpe? Siamo colti dalla tentazione di farne un mito, un avvenimento pericolosamente fuori dalla storia, non perpetrato da uomini contro uomini, ma avvenuto per un tragico destino. Con i contorni, cioè, di una lontana tragedia greca, quasi un fatto letterario. E infatti molti ne fanno letteratura di finzione. E ci si chiede allora: abbiamo il diritto di sfruttare la Shoah per farne finzione letteraria? E ci si risponde che così la si fa almeno conoscere, se ne trasmette il ricordo. Certo, ma la si sfrutta, anche! E fare un mito della Shoah, poi, non è forse un segno della solita “arroganza” del popolo ebraico, come dicono gli antisemiti? In tutti questi interrogativi ci si dibatte, senza che si riesca a intravedere una risposta pacificante. Non diversa è la nostra crisi di fronte al problema di Israele. Che non dovrebbe essere un problema. Che per chiunque altro non sarebbe un problema. Tranne che per noi. Da una sessantina d’anni ormai ci siamo abituati a interrogarci sulla liceità di sostenere Israele ad ogni costo. E ci siamo divisi in sostenitori senza se e senza ma, da un lato, e sostenitori con diritto di critica, dall’altro. Forse i due campi in contesa sono stati condizionati e in parte prodotti da una politica non nostra, una politica esterna a cui non sempre si aderiva consapevolmente. Fatto sta che la divisione ha cominciato a operare non solo nel rapporto interpersonale (il che sarebbe normale nella dialettica spinta dell’ebraismo), ma anche all’interno del nostro animo. Eppure molti di noi non riescono a identificarsi totalmente con le scelte politiche di Israele (come peraltro con quelle italiane), o con lo sviluppo complesso della sua identità sociale, o con le sue battaglie interne fra un certo tipo di laicismo spinto e un certo altro tipo di spinta ortodossia; e il nostro sano orgoglio e le nostre emozioni per i raggiungimenti scientifici e tecnologici di Israele li sentiamo come qualcosa che ci deriva dall’appropriazione impropria di una cosa non nostra. L’opposizione fra un’adesione assoluta e un’adesione critica ha prodotto dentro di noi effetti spesso laceranti, per una disgraziata tensione a essere sempre un po’ più consapevoli, un po’ più oggettivi, una tensione a incarnare quella figura dell’ebreo ideale che si forma nella mente di coloro che ci apprezzano. Chi non ama l’ebreo addebita questo atteggiamento a quell’arroganza che a noi piace chiamare semplicemente ‘coscienza critica’. Dalla metà del Novecento, Shoah e Israele, con i loro problemi e i loro interrogativi, hanno assorbito giustamente gran parte delle nostre energie intellettuali, e non solo. Non sarebbe potuto essere diversamente. Nessuno di noi poteva dimenticare la Shoah, le persone perdute nell’orrore, e nessuno di noi poteva non stare a fianco di Israele, che, criticabile o meno, è un miracolo della storia. Ma Shoah e Israele hanno finito per assorbire ogni nostra attenzione, producendo un fenomeno che è forse altrettanto pericoloso di quanto non sarebbe stato se di Shoah e di Israele ci fossimo dimenticati. Nella tenaglia di questi due fenomeni della storia è rimasta intrappolata la nostra identità. Così, non mitizzare la Shoah e non tifare per Israele suscita un forte imbarazzo e senso di colpa. In entrambi i casi, ci si sente di volta in volta ingiusti, irriconoscenti, insensibili, traditori. Anche questa è la tragica eredità lasciataci dall’antisemitismo: un condizionamento psicologico che non lascia l’individuo libero di aderire o meno, e di aderire a modo suo, al sentimento collettivo. E del resto, il negazionismo e l’antisemitismo dei nostri giorni continuano a richiedere, quanto meno, un nostro compatto posizionamento su poche ma solide affermazioni di principio. Quasi tutti noi siamo diventati così gli ebrei della Shoah. Ne discutiamo, la insegniamo ai nostri figli, agli amici, la raccontiamo nelle scuole. Come non farlo? È un dovere etico. Lo dobbiamo ai morti, e lo dobbiamo ai vivi. Molti di noi sono diventati anche ebrei di Israele, e gli danno sostegno, e ne scrivono a difesa, e ne ricavano entusiasmo, talora senso di vita, e motivi di autenticazione. Ma potremmo chiederci che ebraismo sia il nostro. Un ebraismo in funzione di una tragica memoria, e un ebraismo in funzione di un sogno avverato. Una funzione, in entrambi i casi. Se il nostro ebraismo si riducesse a questo, se il nostro ebraismo si ridurrà a questo, sarebbe come ammettere che esso sia una contingenza, un caso fortuito. E se – Dio avesse voluto! – la Shoah non fosse mai avvenuta? E se lo stato di Israele non fosse nato? Che cosa ne sarebbe stato del nostro essere ebrei oggi, in Italia. Che tipo di ebraismo saremmo, senza Shoah e senza Israele? Certo, la storia non si fa con i se e con le domande retoriche, ma è un fatto che ci ritroviamo sempre e di continuo di fronte a interrogativi a cui non possiamo sfuggire, un dibattito interiore infinito, che dà vita e dà senso alla nostra coscienza. Bisogna avere il coraggio di tornare a chiedersi che cosa significhi per noi essere ebrei. Una domanda che ci facciamo da secoli ormai, ma ultimamente sembra che la risposta la si dia per scontata, perché non pensarci è più facile che cercare di rispondersi. Ma forse essere ebrei è proprio continuare a porsi la domanda, e non smettere mai di porsela. In uno slancio di onestà con noi stessi, poi, ci si accorge di coltivare il sospetto che non ci sia dispiaciuto più di tanto che Shoah e Israele ci abbiano distratto dal nostro problema centrale. In perfetta buona fede, si intende, abbiamo sospeso l’interrogativo e lo abbiamo nascosto dietro a un paravento. È indubbio che Shoah e Israele hanno resa più complessa la nostra identità, abbiamo assunto l’una e l’altro come parte di noi, della nostra storia e della nostra coscienza; ed è giusto: nessuna identità è cristallizzata, l’identità è una realtà virtuale, sempre mobile, in continua evoluzione; ma forse nell’assumere la coscienza traumatica della Shoah abbiamo messo in secondo piano questioni di identità che un tempo non erano ritenute eludibili, che, anzi, ci sembravano centrali, e sulle quali, magari, ci si accapigliava e ci si divideva. È vero che la Shoah ha reso più consapevole il nostro legame con il passato, e Israele quello con il nostro presente e con il nostro futuro. Ma c’è il rischio che riattualizzando nel ricordo della Shoah il dovere di ricordare Amalek, esauriamo il nostro debito continuo con lo spazio del passato e della memoria rischiando di trasformarlo in un mito; e nel nostro impegno nei confronti di Israele saniamo il nostro debito con il tempo futuro, come se il Mashiach fosse arrivato sotto forma di realtà politico-nazionale. Esauriamo così le possibilità dello spazio e del tempo. Diamo per saturo il passato, che è lo spazio del dolore, e diamo per già acquisito il tempo dell’aspirazione e la dimensione del desiderio. Come se avessimo concluso, o semplicemente chiuso, il percorso biblico della nostra esperienza individuale e collettiva. Si potrebbe allora chiudere l’esperienza con la nostra storia millenaria, ci si potrebbe dare all’universale e alla generica appartenenza all’umanità. Paradossalmente, nessuno di noi è tentato di farlo. Ci si chiede perché. Un altro interrogativo utile a indagare la nostra coscienza. Ma Shoah e Israele sono rispettivamente lo zachor e lo shamor della nostra esperienza di ebrei: la Shoah di cui si custodisce il ricordo – zachor ­–, e Israele che si ‘osserva’ soltanto nella misura in cui vi si abita – shamor. Ma di noi, ebrei della diaspora, che cosa rimane? Come per lo shabbat, forse è necessario far diventare un concetto unico (dibbur ehad) quello zachor e quello shamor, ossia: ricordare di essere ebrei per custodire, nella prassi, il nostro ebraismo. Lo sforzo necessario sarebbe dunque quello di unificare pensiero e azione, come vorrebbe il pensiero religioso. E forse non soltanto in campo religioso. Ma come? Per il pensiero ebraico interrogarsi non suscita scandalo. Anzi è una manifestazione imprescindibile del nostro esistere, ancor prima che della nostra evoluzione intellettuale. Ci chiediamo da sempre perché Avraham sia disposto a uccidere Itzchak, il figlio che ama, e perché Itzchak sia cieco e passivo di fronte all’inganno che si compie accanto al suo letto di morte, quando Ya’akov sottrae a ‘Esav la benedizione che gli spetta. Avraham non mostra libertà individuale, Itzchak fa la figura del gabbato, Ya’akov non mostra correttezza; ma si tratta dei nostri patriarchi, dei fondatori della nostra fede, e, con tutto il rispetto, le tante risposte dei Maestri sui loro comportamenti non soddisfano del tutto l’ansia di risposta. Ci si continua così a interrogare, e si sospetta che gli episodi e le figure del testo biblico abbiano come fine ultimo e profondo quello di costringere l’intelletto a continuare la speculazione, senza potersi mai dichiarare soddisfatti del risultato raggiunto. Le storie bibliche non sono né parabole né allegorie, sono interrogativi. E l’interrogativo è sempre di carattere etico, un interrogativo sui comportamenti e sulle reazioni, sulle modalità del vivere e sulle scelte personali in relazione all’altro e alla società nel suo insieme. Forse non è un caso che l’ebreo abbia rappresentato nella storia il diverso, l’estraneo, l’altro per definizione. Colui che arriva dall’altra parte del fiume. Colui che per arrivare deve viaggiare e spostarsi dal luogo di origine, muoversi verso, attraversare. Lo stato di Israele è un punto di arrivo, e per questo non ci può bastare come fine ultimo. Dobbiamo continuare a muoverci per essere e continuare a essere ebrei. La passività non ci si addice. Dobbiamo vivere la nostra identità prendendo sempre posizione, compenetrando la nostra etica individuale con quella comunitaria e sociale. E per non fare soltanto della filosofia astratta, vengono alla mente, a solo titolo esemplificativo, i molti argomenti su cui, come individui e come istituzioni, avremmo dovuto prendere una posizione chiara e forte per affermare a noi stessi di esistere in quanto ebrei, e abbiamo invece spesso contribuito al dibattito con un dignitosissimo silenzio o, tutt’al più, con qualche timida uscita, sottovoce. Si tratta di argomenti importanti, quali la difesa del debole e dello straniero, perché anche noi siamo stati stranieri, la difesa del principio di laicità dello stato (per un insegnamento laico nella scuola pubblica e per una classe – e un tribunale – senza crocifissi), la depauperizzazione della scuola pubblica in favore della scuola privata (cattolica), la difesa del relativismo culturale, perché l’assolutismo religioso propugnato dalla chiesa difende soltanto la religione di stato, la cosiddetta e tanto mitizzata verità cattolica, quella unica, che subordina ogni altra identità religiosa e ogni dignità individuale. Soprattutto di fronte a questa continua negazione cattolica del relativismo, come se si trattasse di una bestemmia contro Dio e l’umanità, noi abbiamo girato il capo dall’altra parte, fingendo di non sapere che è la negazione stessa di tutta la nostra cultura, il modo in cui il cristianesimo cerca di superare il suo più grande problema: l’ebraismo. La nostra tentazione invece è rimanere sempre un po’ ’l’altro’, mantenere la prospettiva dell’altro, la sensibilità dell’altro. Perché noi siamo stati l’altro per tutta la storia. Acquisire la visione conclusa della maggioranza significa cancellarsi, nascondersi, annullare ogni sensibilità per le difficoltà di chi vive ai margini, irriconosciuto, respinto, mentre attraversa i guadi. Non si vede differenza fra il dovere di recitare il kiddush con la propria famiglia e il dovere di levare la voce in favore dei principi di coesistenza civile e della libertà di scelta individuale. L’ebraismo è un’ortoprassi, la religione del fare, e lo è anche nel campo etico e culturale. Per essere etici non basta compiacersi perché la Torah è etica, come per vivere la nostra cultura ebraica non basta compiacersi perché Freud, Einstein, Kafka, Mahler erano ebrei. Se bisogna essere giusti nel giudizio e usare pesi e misure onesti (Levitico 19:35-36) è perché bisogna essere corretti nei riguardi dell’altro, ricordandoci oltretutto che per tanto tempo l’altro siamo stati noi. E lo siamo ancora. Se si è richiesti di rispettare i Maestri è perché la cultura, lo studio sono considerati un dovere etico. Per l’ebreo essere è studiare. L’ebraismo è impegno; se si vuole partecipare bisogna esserci, anche a costo di riconoscersi pericolosamente sospesi, in bilico fra religione, etica e cultura. C’è un’immagine che intriga la mia mente da una cinquantina di anni. Un’immagine che rappresenta bene la situazione in cui si trova l’ebraismo italiano (e forse l’ebreo tout court) È di Saul Steinberg, un illustratore e fumettista ebreo americano di origine rumena, morto nel 1999. Un’immagine che non è una risposta o una soluzione, ma è un’altra domanda. Una donna brandisce un martello confrontandosi con il suo punto interrogativo, e con quello si tiene in equilibrio. Montaigne si chiederebbe se sia lei a tenere in equilibrio il punto di domanda o se non sia il punto di domanda a tenere in equilibrio lei. È un fatto che l’equilibrio è dato necessariamente dall’esistenza di quelle due figure alle due estremità dell’asse. Se la donna colpisse davvero con il suo martello il punto di domanda si autoscaraventerebbe nell’abisso. Un suicidio, goffo, ma tanto reale quanto simbolico. Soltanto l’esistenza del punto interrogativo permette alla donna di esistere nel suo equilibrio; ma, passando dal piano grafico a quello intellettuale, un interrogativo si annulla fornendogli una risposta soddisfacente, fornendo, ad esempio, un significato all’immagine. In effetti, il colpo di martello sarebbe una risposta al punto di domanda, e lo annullerebbe, annullando tuttavia anche il soggetto che brandisce lo strumento. Potremmo complicare la nostra lettura di questa immagine, notando che il punto di domanda è rovesciato specularmente, come se si fosse girato a fissare la donna negli occhi per osservarla meglio, minaccioso. Oppure è l’intera immagine ad essere ribaltata specularmente, come se il punto di domanda e la donna si fossero scambiati le rispettive posizioni, come accade nel corso di un duello. O, ancora, la specularità vuol forse indicare il rivolgimento interiore, la speculazione analitica messa in atto dalla figura umana nel tentativo di vedere, di studiare quella domanda da ogni possibile prospettiva. Ma non occorre complicarsi la vita: è già abbastanza enigmatica di per sé. L’immagine di Steinberg sembra una splendida e ironica rappresentazione della nostra umanità, e del nostro ebraismo. Come si può pretendere di risolvere con un semplice atto univoco, con una semplice risposta, con una martellata, la complessità del nostro esistere e del nostro vivere? Come non riconoscere che la vita è lo spazio che intercorre fra due domande estreme irrisolvibili, uno spazio contraddittorio, sospeso fra due interrogativi? Sembra di dover dedurre alla fine che l’identità di quella figura sull’asse è segnata proprio da quel suo precario equilibrio, da quel suo stare sospesa, in attesa. Un’identità fra un prima e un dopo che la annullano. Essa esiste soltanto durante, e quel durante è contraddittoriamente fissato nella sospensione, fra un non più e un non ancora. L’unica desiderabilità è quel presente di crisi. Vien voglia di chiedersi se anche l’identità dell’ebraismo italiano non sia rappresentata da quell’immagine. Un ebraismo in crisi che ha forse spezzato i collegamenti con il proprio passato, e lo tratta troppo spesso come una storia da cui ci si è distanziati in modo definitivo, ben attenti peraltro a non farsi invischiare in una corsa verso un futuro che implicherebbe una partecipazione identitaria troppo coinvolgente. Un ebraismo in tensione fra la nostalgia di un passato più ortodosso e un futuro pìù moderno, un ebraismo che non ha il coraggio di rivendicare il diritto, il desiderio, di rimanere in bilico sull’asse della propria compromissoria identità di confine. Un ebraismo che dovrebbe soltanto riappropriarsi del proprio tradizionale modo di essere, dell’identità di chi non è e non vale finché non costituisce collettività, comunità, ed è comunità in quanto si appropria in modo attivo e continuo della propria cultura, dei propri valori, vivendoli e rappresentandoli senza esitazioni. Un’identità di confine, da conquistare tuttavia giorno per giorno, incessantemente, attraverso l’agire etico e culturale. Senza magari scordarsi del kiddush in famiglia, che ricordi da dove si viene e chi si è.
Forse, e malgrado certi sommovimenti dell’ultim’ora, il nostro ebraismo italiano si sta ancora muovendo, più di altri, fra il non più dell’ortodossia e il non ancora della riforma. A volte, per scansare il fardello non troppo desiderato della prima, ci si muove verso il rischio della seconda. Rimanere in bilico sull’asse della precarietà, assumendo consapevoli il proprio equilibrio precario, è forse l’opzione meno azzardata, a patto che non si perda mai il senso del proprio essere, a patto che non si smetta mai di confrontarsi con i punti interrogativi che ci portiamo dentro. Dario Calimani, Università di Venezia http://moked.it/

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