martedì 26 aprile 2011



Pincio: quell'hotel a zero stelle a Tel Aviv
Qui sotto, un brano da «Hotel a zero stelle», il nuovo romanzo dello scrittore romano Tommaso Pincio (pagine 240, euro 12,00, Laterza, collana Contromano): un viaggio tra vita e letteratura all’interno di un insolito albergo dove gli ospiti dovrebbero essere vagabondi dell’anima.

Tra i tanti alberghi che ho visitato, un angolo speciale del mio cuore se l’è conquistato un postaccio di Tel Aviv. Si trova in pieno centro, alle spalle di quel vialone serpeggiante e rumoroso chiamato Allenby che segna il confine sud della città. A due passi c’è Shenkin, strada molto alla moda, piena di locali pretenziosi, tra cui, un tempo, il Conceptual Bar, dove pagavi per non prendere nulla. Cioè, ordinavi, che so, un caffè, e ti arrivava una tazzina con tanto di piattino, cucchiaino 24 e zuccheriera. Il lato concettuale della faccenda, ovverosia il nulla, consisteva nel fatto che tazzina e zuccheriera erano vuote. Il bar è andato fallito nel giro di un paio di mesi, da quel che ricordo, ma Shenkin è rimasta la strada migliore della città, ammesso che non si disdegni di stare in mezzo a giovani in posa conciati all’ultimo grido. È anche un buon posto per sapere tutto dell’India e di esperienze psichedeliche, perché vi vedi ciondolare transfughi appena rientrati da Goa con la testa ancora in orbita. A sciamare tra la gioventù, stralunata o in ghingheri che sia, compaiono di tanto in tanto sperdute frotte di pinguini – come vengono chiamati qui gli ebrei ortodossi – coi loro pastrani neri, le camicie bianche, le basette arricciolate, le nappe che penzolano all’altezza dei fianchi; un contrasto niente male con le giovani soldatesse della Tzva HaHagana LeYisra’el che, mitra in spalla, il venerdì sera, all’inizio dello Shabbat, gironzolano per le boutique provando vestitini o costumi da bagno. Il mio postaccio si trovava vicino e ai margini di tutto questo, in una stradina laterale. Da fuori l’impressione non era granché e l’interno era pure peggio. ad accogliere il perplesso avventore, l’unico dipendente dell’albergo, se albergo vogliamo chiamarlo. Costui era un uomo maturo, zoppo e guercio – non scherzo – con un’aria nel complesso per nulla rassicurante. Indossava soltanto un paio di pantaloni corti, se non vere e proprie mutande, ed era la persona più scortese che abbia mai incontrato. A parte ciò, lo si poteva considerare un brav’uomo, un greco entrato in Israele grazie alla Legge del Ritorno. I turisti capitavano nel suo albergo per via della Lonely Planet, che assicurava stanze a prezzi decisamente concorrenziali. Restavano però interdetti nell’imbattersi in un concierge con tutti gli attributi dell’omicida seriale. Prendevano tempo, si guardavano attorno, poi domandavano quante stelle avesse l’albergo. Lui, risoluto, scorbutico, minaccioso, si beava di rispondere sempre alla stessa maniera: «Here no star. If you want the stars go to the sky». Doveva aver letto Dante senza saperlo, quell’uomo, perché al suono delle sue parole, senza pensarci due volte, la maggior parte dei turisti scappava via, fuori, a riveder le stelle. Io, che con quel genere di inferni ci vado a nozze, non mi sono fatto spaventare. Non funzionava niente là dentro. Le stanze erano dotate di un piccolo lavabo lercio e spaccato dal cui rubinetto usciva, tra mille rumori, un filo d’acqua rugginosa. Dire che le pareti erano scrostate non renderebbe l’idea, diciamo dunque che somigliavano a un’opera di Burri. Accendere il ventilatore, ammesso che si accendesse, era sconsigliabile: batuffoli neri si alzavano in volo vorticando come pipistrelli furiosi e rendevano l’aria irrespirabile. La sera il concierge era solito godersi il fresco seduto in mutande in una piccola terrazza da dove era possibile contemplare un cielo pieno di quelle stelle che l’albergo era orgoglioso di negare ai suoi ospiti. Qualche volta mi intrattenevo con lui prima di uscire, prima di tuffarmi nella dolce vita di Shenkin. Mi raccontava storie della sua Grecia e di quando Israele era un paese tutto da costruire. A me veniva da pensare che ogni angolo di Tel Aviv dovesse essere un po’ come il suo albergo, a quei tempi. È qualche anno che non capito più in medio oriente, per cui non so se esista ancora. Dubito; posti tanto meravigliosi tendono a scomparire, è una legge di natura. Non ricordo nemmeno come si chiamasse. Ma non mi sorprenderebbe che non l’avesse affatto, un nome. Del resto, importa forse qualcosa? Per me è sempre stato, e sempre resterà, l’hotel a zero stelle, ovvero il mio albergo ideale i cui ospiti tipo dovrebbero essere i vagabondi dell’anima, coloro che ancora gironzolano alla ricerca di sé, senza troppa arte né parte. in questo albergo non poco scalcinato si può stare fin quando si desidera, perlomeno fintanto che non si è compreso quale tipo di sangue cavare dalla propria rapa. L’ospite può starsene chiuso in camera, come in un sanatorio, leggendo o riflettendo sul proprio passato o su cosa intende fare del proprio futuro. Se ne ha voglia, può scendere dabbasso e scambiare quattro chiacchiere con il portiere tuttofare dell’albergo, che ha sempre qualcosa da dire, qualche lezione di vita da impartire. Inoltre, diversamente dai normali alberghi, l’ospite può esplorare l’edificio dal piano terra sino al tetto, dal quale è possibile ammirare un magnifico cielo stellato nelle serene notti di luna nuova. Può persino bussare alle stanze degli altri ospiti, i quali, essendo vagabondi dell’anima anch’essi, saranno più che felici di accoglierlo e scandagliare in sua compagnia il senso dell’esistere e le relative questioni, che sono poi la chiave per orientarsi nel mondo all’esterno, spesso assai meno inospitale di questo speciale albergo. Solitamente, un buon albergo a zero stelle si compone di quattro piani perché così vuole il mito della conquista di sé, articolato, come noto, in quattro fasi. Alla maniera del viaggio dantesco lungo i regni ultramondani, il viandante in cerca di sé passa dallo smarrimento iniziale in una qualche selva oscura a tre fasi successive più o meno assimilabili a inferno, purgatorio e paradiso. È una struttura che ricorre in moltissime storie e leggende, anche se ogni leggenda fa un po’ storia a sé, perché ognuno ha il suo modo personale di perdersi così come ha un proprio inferno, un proprio purgatorio, un proprio paradiso. C’è un primo piano, nel quale l’ospite è ancora spaesato e incerto su cosa fare. E un secondo piano dove lo smarrimento si popola di mostri. E un terzo piano in cui l’ospite cerca la forza di reagire e prende le misure di ciò che lo circonda. E un quarto piano in cui l’ospite raggiunge una forma di consapevolezza che gli consente l’accesso al tetto dal quale tornare a vedere un po’ di luce, quelle stelle che l’albergo non ha. 21 aprile 2011,http://www.unita.it/

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