martedì 26 aprile 2011



Viaggio a Itamar, ultimo baluardo
Un mese fa la strafe dei Fogel. Nessuno è fuggito dopo il massacro. La colonia è divenuta il simbolo d’Israele. La comunità romana "adotta" la bimba sopravvissuta
Quanti ne arrivano al giorno, Haim? «Ieri ne sono venuti duemila. Da tutta Israele. Ci hanno portato la solidarietà, il loro abbraccio. Vedi, anche se l'opinione pubblica è divisa sugli insediamenti, dopo gli attentati ci si stringe come in una famiglia. Il massacro di un mese fa ha sconvolto tutti gli israeliani. Nemmeno un animale può uccidere in quel modo orrendo dei bambini durante il sonno». Non c'è neanche un semaforo ad Itamar. Solo una rotatoria. Con la macchina si fa su e giù sulle colline dove i soldati vigilano giorno e notte. Tra una casa e l'altra, passando per le scuole, i vigneti, e gli edifici dove gli artigiani fanno formaggio e imbottigliano il vino. Ci abitano 960 persone per 180 famiglie, religiosi e laici. Haim Weiss ha cinquantotto anni è il direttore dell'insediamento. Incastonato tra tanti insediamenti arabi (ai piedi delle alture c'è anche Nablus), Itamar, fondato trent'anni fa, si stende su dieci chilometri quadrati. Vicino al centro la casa dove la famiglia Fogel è stata massacrata dai terroristi palestinesi. Una casa come le altre, a pochi passi da quella dove nel 2002 si consumò il massacro degli Shabo. A poco più di un mese dall'attentato ad Itamar, durante il Pesach (la Pasqua ebraica) arrivano gli autobus di gente che vuole portare la solidarietà agli abitanti. Sono tornati anche il presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici e un gruppo di ebrei romani con i loro bambini. L'insediamento è stato più volte nel mirino dei terroristi. In dieci anni sono state assassinate ventidue persone. C'è pure un cartello in ricordo delle vittime con su scritto «la gioventù di Itamar non si spezza». «Ci fu anche un attentato in una scuola: entrarono i terroristi nel centro sportivo e cominciarono a sparare sui ragazzi. Ne morirono tre. Vorremmo vivere in pace, ma loro (i vicini palestinesi) non ce lo permettono - dice Haim -. Per noi è un dato di fatto che vivono qui vicino, non li vogliamo "eliminare". Ma loro vogliono uccidere noi. Non vogliono vederci qui perché siamo ebrei, e ci odiano. L'unico modo per sopravvivere è far sentire la nostra autorità, per questo chiediamo allo Stato d'Israele più sicurezza. Servono telecamere ovunque e un piano speciale per difenderci. Ci vuole autorità, se abbassiamo la guardia i nostri nemici ne approfittano». Haim è sempre in contatto con i familiari dei tre bambini sopravvissuti al massacro dei Fogel. Tamar, la bambina di dodici anni che quel venerdì sera è miracolosamente mancata all'orrendo appello dei terroristi, torna ad Itamar due volte a settimana per studiare nella stessa scuola, con le sue amiche. «I bambini ora sono con i nonni a Gerusalemme. Non possono tornare qui, non hanno più una famiglia - spiega Haim -. Hanno dovuto prendere decisioni difficili, ma per ora mi sembra la scelta migliore». Dal quel terribile venerdì sera, eccetto gli orfani dei Fogel, nessuno ha fatto le valigie. «La gente qui ha il proprio lavoro e sta bene. La comunità è molto unita, nelle grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv non è così. Poi, dove vuoi andare? Non si può scappare dal terrore. Qualche settimana fa i terroristi hanno colpito anche a Gerusalemme...». Beni ospita la delegazione romana nel suo giardino per il tradizionale barbecue di Pesach. I terroristi gli hanno ucciso un figlio soldato di ventidue anni ad Ariel, una città vicino ad Itamar. «Io sono più fatalista... quello che deve succedere, succede- dice Beni -. Prima dell'Intifada avevamo contatti con i nostri vicini palestinesi. Molti erano amici miei. Per questo oggi parlo perfettamente arabo. Con l'Intifada tutto è cambiato». La delegazione della comunità romana si presenta a casa di Beni con un album di disegni fatti dai bambini delle scuole ebraiche per i loro "colleghi" di Itamar. «Quando siamo venuti la prima volta, subito dopo il massacro, abbiamo portato agli abitanti di Itamar un gesto di solidarietà e una piccola somma - racconta Pacifici -. Poi un membro della nostra Comunità si è offerto di garantire gli studi di Tamar Fogel fino all'università. Durante la visita abbiamo ricevuto dai bambini alcuni disegni per i ragazzi delle nostre scuole. Così "i nostri" hanno ricambiato. Adesso siamo tornati qui con le famiglie e i bambini perché abbiamo stabilito un rapporto umano con queste persone e per dimostrare che non bisogna avere paura. Dobbiamo stare vicino agli abitanti di Itamar». Un atto di solidarietà umana, dunque. «Sì, ma portiamo anche la nostra solidarietà politica, perché loro abitano nel cuore dell'ultimo baluardo». In che senso? «Qualcuno vuole farci credere che il problema della pace del Medio Oriente passa per le "colonie", termine che innanzitutto respingo. Gli insediamenti sono dei luoghi dove gli israeliani hanno deciso di vivere anche se in mezzo a posti ad alta densità araba, come tanti arabi vivono in molte città israeliane tra cui Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa. Io ho maturato delle idee nuove riguardo gli insediamenti». Quali? «Penso all'indomani dal ritiro dal Libano. Quella scelta coraggiosa di Barak portò alla guerra del 2006, all'intensificarsi del lancio dei missili su Israele, e alla salita al governo di un esercito irregolare, gli Hezbollah. Anche il ritiro da Gaza ha portato alle stesse vicende. In quella circostanza, come sempre, abbiamo sostenuto la scelta di pace del Governo e pianto insieme agli israeliani che si ritiravano. A Gaza oggi non c'è alcun tipo di contenzioso, eppure da li continuano ad arrivare missili sulle città israeliane. Adesso c'è l'ultimo baluardo, gli insediamenti». Quindi? «Se qualcuno vuole raccontarci la favola che la pace si farà una volta che saranno restituiti i confini del '67, allora questo qualcuno vive a "nel Paese delle Fiabe". Tutto il mondo arabo che è intorno ad Israele, ma anche lontano da esso, ha l'obiettivo di cancellare lo Stato Ebraico dalla cartina geografica. Il loro obiettivo, come è stato ieri per Arafat, non è avere uno Stato palestinese indipendente (che potevano ottenere nel '48 all'indomani della risoluzione dell'ONU), ma soltanto distruggere Israele. Noi continueremo a sostenere le scelte d'Israele. E torneremo presto ad Itamar: da un fatto tragico abbiamo costruito una collaborazione che andrà avanti nel tempo. Stiamo lavorando a molti scambi culturali e progetti condivisi».Giulia Funaro 24/04/2011 http://www.iltempo.it/

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