venerdì 4 novembre 2011



Gitai finisce in cantina

Nei sotterranei della Mole

racconta il dramma del padre, perseguitato dai nazisti

Si esce nel cortile e si apre una porta cui probabilmente non si sarebbe fatto caso. Bisogna scendere le scale, strette, si sente pungente l’aria da cantina, inutile guardare il montacarichi è solo per il trasporto dei materiali. Si va cinque metri sotto il livello del suolo, cinque metri dalla «base» della Mole. E’ la prima volta che vengono aperti i sotterranei del Museo del Cinema, e l’occasione non è ufficiale, nemmeno strettamente legata al cinema. E’ un evento pensato per e con Amos Gitai, il regista israeliano che in questi giorni sta lavorando «in cantina». Fra le travi in cemento, la sala macchina dell’ascensore panoramico, i quadri elettrici: è il luogo che lui ha scelto per la sua video-installazione «Architettura delle memoria». Dopo il Kust-Werke a Berlino, la Base sottomarina a Bordeaux e il Palais de Tokyo a Parigi. E Alberto Barbera assicura che il deposito potrebbe diventare un nuovo spazio permanente della Mole. La performance Gitai la inaugurerà domani alle 11 (ingresso gratuito; da sabato all’8 gennaio: 7 euro), ma fino a quel momento il lavoro è in trasformazione. La visita in anteprima è davvero un’idea di quello che il regista insegue: «Ogni volta il progetto si evolve, la sua realizzazione è strettamente legata al luogo» inizia a guidare il percorso l’autore dell’opera autobiografica, cercando di far immaginare come si materializzerà il racconto di sé attraverso la storia del padre, Munio Weinraub, architetto del Bauhaus, ebreo perseguitato dai nazisti, processato nel 1933 e fuggito poco dopo in Palestina dove contribuì all’architettura dello Stato d’Israele. Punto focale: il legame tra architettura e potere. Osservato da lui, che nasce architetto: «Mi piace mettermi in gioco sulle arti figurative, cerco l’equilibrio fra un edificio e il periodo storico di cui parlo». Si è innamorato dei sotterranei della Mole, «danno il senso dell’emozione, permettono immagini “sussurrate”. Arriveranno da 18 proiettori sui muri, su una porta - ecco l’elemento cinematografico, qualcosa che si apre davvero e fa entrare nel subconscio del regista -, sul pavimento». Alle spalle di un incrocio di travi di cemento il processo al padre; in una nicchia grigia alcune sequenze del film «Free Zone»; a terra, davanti a una pedana-scala, in anteprima assoluta stralci del docu-film che l’artista sta ultimando e cuore del progetto: «Lullaby to my father». La poesia «Ninnananna per mio padre», scritta da Gitai due anni fa e presentata come sceneggiatura, appesa in una micro-galleria del sotterraneo: «Munio mio padre/ Come tutti quelli della sua generazione/ Applicava all’architettura la nozione di modestia, di ritegno/ L’obbedienza a un progetto collettivo...» inizia. «La Scuola Bauhaus fu chiusa ancora prima di altre con tendenze decisamente marxiste» prosegue Gitai, e intanto si appunta a memoria i cambiamenti ancora possibili. «Hitler aveva compreso che l’architettura poteva essere un pericolo per l’autoritarismo». Su un’altra parete, in un corridoio illuminato solo dalla fioca luce dei neon, proiezioni vanno sulla voce di Jeanne Moreau che legge una lettera scritta dalla madre di Gitai a suo padre, dopo aver assistito a una parata nazista: «Bisogna fuggire». Terrore in parole, che qualche passo prima non si avvertiva al suono diffuso di un violino. Il corridoio, prima e dopo i passaggi in mattoni rossi che espongono i documenti del padre e le macro-didascalie dei film, porta alle immagini di «Berlin-Jerusalem» del 1988, di «Carmel» del 2008, di «Rose à credit» dell’anno scorso: titoli noti e inediti, faranno parte della retrospettiva al via stasera alle 20,45 al Massimo (fino al 18 novembre). «E’ un rapporto di lunga data quello che abbiamo con Gitai» ha detto Alberto Barbera.3 nov http://www3.lastampa.it/

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