sabato 17 dicembre 2011

Voci a confronto

Si chiude una settimana pessima, all’insegna di una successione di eventi drammatici, se non purtroppo luttuosi, contrassegnati dall’evidenza di un razzismo che non è residuo del passato ma scomodo compagno della nostra quotidianità. Come tale in fermento e destinato, quindi, a fare di nuovo capolino, di qui a non molto. Tralasciamo pertanto, almeno per questa rassegna, le riflessioni sul Medio Oriente (rinviando alla complessa situazione del rapporto con alcune componenti presenti negli insediamenti in Cisgiordania con la lettura degli articoli di Luigi Spinola per il Riformista e di ro.sco, ovviamente un acronimo, su il Foglio) e concentriamoci sui fatti di casa nostra. La questione non è solo morale, va da sé, ma anche e soprattutto civile (e, quindi, politica), rimandando ai modi, alle scelte, alle condotte assunte per gestire le grandi questioni che riguardano la nostra società. Della quale scopriamo, per così dire, che sa essere intollerante quanto basta per rivelarsi anche pericolosamente inospitale. Poiché le tante manifestazioni di crescente intolleranza vanno saldandosi in gesti e condotte delittuose che, se nella loro singolarità, possono essere comodamente ascritte al delirio di coloro che ne sono immediati responsabili, inanellate le une con le altre fanno derivare uno slittamento collettivo verso pericolosi esiti. L’antisemitismo sta dentro questo velenoso contenitore, costituendone semmai il collante che, per il fatto stesso di esistere da molto, se non da sempre, almeno a memoria d’uomo, può essere usato alla bisogna nella quantità che occorre al caso. In altre parole: do fuoco all’accampamento dei nomadi ma sono pronto a pensare che le mie disgrazie siano il prodotto anche di un “complotto giudaico”. Menzioni in tal senso, negli articoli di Sara Menafra per il Messaggero, ma soprattutto di Federico Merlo per il Fatto quotidiano, così come involontario contributo alla nostra riflessione ci è offerto dal quotidiano della «sinistra nazionale» Rinascita, laddove pubblica un articoletto, probabilmente di Claudio Mutti, di presentazione di un volume dove si sostiene, sibillinamente, che «più che una religione, quella ebraica è una visione del mondo, tanto forte e originale da essere protagonista nella storia dell’umanità». Un quadro di riferimento aggiornato, ancorché obbligatoriamente sintetico, è poi quello di Sonia Oranges su il Riformista, dove è messo in chiaro, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che ogni episodio, nella sua occasionalità, si inserisce dentro un pensiero di lunga durata, che trova nel negazionismo (la pseudocorrente di falsi storici che affermano che lo sterminio degli ebrei è una menzogna) il suo punto di sintesi. Illusorio, quindi, il pensare che il razzismo, in fondo, sia sal momento un problema degli e per gli “altri”, essendo non un residuo del passato ma piuttosto lo strumento per intervenire brutalmente nei processi sociali imponendovi dei bruschi mutamenti attraverso la segregazione, la violenza e, non da ultimo, le persecuzioni. Posta in questi termini, sia pure sommari, la questione, risulta allora poco condivisibile l’analisi di Fabrizio Rondolino su il Giornale (così come la difesa di Casa Pound fatta da Pietrangelo Buttafuoco intervistato da Manila Alfano sulla medesima testata e l’analisi di Giuliano Rocca sul Secolo d’Italia, alle quali si contrappone l’opinione di Pino Casamassima su la Nazione) dove già dalle premesse si parla di «opinioni xenofobe» quando per il nostro ordinamento giuridico, senza neanche andare a scomodare la legge Mancino, sussiste la distinzione tra opinione e diffamazione (nonché l’istigazione al compimento di questa e degli atti che ad essa possono associarsi). Quest’ultima tanto più pericolosa, e quindi aggravata dal punto di vista penale, dal momento in cui chiama in causa non solo un unico destinatario ma una pluralità di soggetti, come nel caso delle comunità (più o meno propriamente definite «minoranze»), soggette alle ritorsioni correlate a pensieri palesemente offensivi. Da questo configurazione giuridica deriva peraltro la categoria della dimensione traslativa, che si riconnette alle affermazioni false o menzognere, laddove esse costituiscano deliberata apologia della violenza. In parole povere: commetto un reato se dico cose che violano non solo l’onorabilità e la dignità ma anche e soprattutto la sicurezza di una persona, o di un gruppo di persone; tale violazione sta nel fatto che quelle cose affermate, per così dire “legittimano” la messa in opera di atteggiamenti, atti, condotte di natura offensiva, ledente la vita di coloro che sono da esse stigmatizzati. Le aprole sono pietre, ci ammoniva Carlo Levi. Certo, le questioni che l’articolista pone non sono tutte di lana caprina, rinviando all’irrisolta discussione su dove si situi la linea, in sé spesso mobile, tra idee, per quanto radicali ed estreme ma legittime nella loro manifestazione, e offese deliberate. Non è facile l’affermarlo e si può aggiungere che ogni evento è fatto che vada considerato nella sua singolarità ma rimane la necessità di sanzionare, preventivamente, la non accettabilità (e quindi la punibilità) di ciò che induce al delitto. Il nesso tra razzismo e violenza è intrinsceo. Men che meno convince poi la chiusa dell’articolo, dove si afferma che i rei «anziché mandarli in galera, andrebbero invitati nelle scuole e nei talk show. Non sarà difficile dimostrare l’inconsistenza scientifica, l’aberrazione morale, la pericolosità pratica delle loro idee». Rondolino aveva fatto precedere a questa presa di posizione un’altra opinabile affermazione: «discutiamo [..] liberamente del razzismo e facciamolo con i razzisti», partendo da presupposti ancora una volta non condivisibili, ovvero che del razzismo evidentemente non si discute né a sufficienza né liberamente, e che per ottenere l’una e l’altra cosa, riparando alle deficienze del caso, si dovrebbero chiamare in causa i “diretti interessati”. Hanno forse qualcosa da dire, costoro, che non siano gli slogan dietro i quali si parano? Gli interlocutori di qualsiasi «discussione» di tale merito non sono i «razzisti» bensì le loro vittime. Poiché quello che agisce come dispositivo aggregante, nella razzizzazione, non è un presunto nocciolo razionale (che va sì identificato, smontato e contrastato ma al di là dei monologhi ossessionanti e autoreferenziati dei suoi sostenitori), bensì quel tragico viatico per l’azione che il parlare razzista è da sempre. In altre parole ancora: dobbiamo parlare di razzismo ma non dobbiamo discuterne con i razzisti. Non sono interlocutori, in alcun modo. Poiché non c’è comune intesa sui fondamenti linguistici e morali essenziali per porre in essere un confronto, ancorché duro ma umano. Il fondamento del “pensiero” razzista è la deumanizzazione di quanti non siano considerati propri pari, ossia uniformi a sé. Punto e basta. Sono gli stessi razzisti a non cercare dibattiti ma solo momenti, altrimenti insperabili, di visibilità per il tramite delle opportunità a loro offerte, più o meno ingenuamente. Offrirglieli è dare loro ciò che vanno cercando, un palcoscenico sul quale esibirsi. Non è poi vero che sussista un’autoevidenza dei presupposti negativi dei deliri, se così vogliamo qualificare le affermazioni razziste. Esse sono soggiacenti ad un principio, quello della massima semplificazione, della dicotomia elementare: buono/cattivo, bello/brutto, bianco/nero e così via. Della complessità del nostro vivere quotidiano, del pluralismo e della differenziazione delle società, fanno piazza pulita, in ciò gratificando chi vuole letture tanto banali quanto confortanti. I razzisti non hanno nulla da dire che non sia la ripetizione delle proprie litanie. Piuttosto preoccupa l’afonia di chi dovrebbe parlare una lingua ben diversa e che, a volte ammaliato dalle sirene di un populismo culturale che ha sfondato a destra come a sinistra, se ne sta invece lì fermo, ad osservare quanto succede, ripetendosi come un mantra che “no, il razzismo esiste ma quello a cui sto assistendo non è tale”. L’autoindulgenza cammina, storicamente, a braccetto dell’indifferenza, nel mentre le società si muovono sul sottilissimo filo del rasoio.Claudio Vercelli,http://moked.it

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