Per qualche anno è andato di moda nelle università di mezzo mondo citare con approvazione l'aforisma di Friedrich Nietzsche per cui "non ci sono fatti ma solo interpretazioni". La smentita più spiritosa che ho sentito è quello di Maurizio Ferraris, che la porta all'assurdo con un semplice cambio di consonante: se è così, allora fra l'altro bisogna dire che "non ci sono gatti ma solo interpretazioni". Comunque un bel pezzo dell'accademia si è impegnato per anni a insegnarci quanto fosse ingenua l'idea della verità: non esiste, hanno pontificato in tanti, non esiste un giornalismo oggettivo, non esiste una storia vera o in generale una scienza neutrale - solo interpretazioni. La storia la scrivono i vincitori, la scienza dipende dagli interessi del capitale. Questa variante del "pensiero debole" (che non a caso ha avuto fra i suoi principali esponenti italiani quel Gianni Vattimo, così nemico di Israele che un giorno disse in pubblico - per paradosso, è chiaro, solo per paradosso - che stava arrivando a credere ai "Protocolli dei savi di Sion") potrebbe essere archiviata fra le bizzarrie dell'accademia, e infatti la moda infatti è già girata, se non avesse contagiato politici, giornalisti, politologi. La versione tarda che costoro adottano, probabilmente essendo stati formati in quel quadro teorico molto fragile filosoficamente ma aggressivo sui media che è il postmodernismo americano, si caratterizza con la bizzarra terminologia delle "narrative". Non vi sarebbe una verità sull'insediamento ebraico in Israele, per esempio, ma solo delle "narrative", in particolare quella cattiva, sionista, e quella buona, "resistente" cioè palestinese: scegliere fra loro sarebbe solo questione di gusti, o meglio di schieramento. Se uno vuole stare dalla parte del prgresso e della giustizia, accoglie la "narrativa" per cui non vi è mai stato un tempio sul montre di Sion, gli ebrei attuali sono tutti più o meno discendenti dei Kuzari e dunque turchi, e Ben Gurion ha progettato ed eseguito la pulizia etnica della "Palestina", magari dopo aver incitato i nazisti a perseguitare gli ebrei non sionisti per produrre l'immigrazione "coloniale" in "Palestina" che voleva. E' una narrativa un po' contrastante con testimonianze come la storia romana, l'archeologia, la Bibbia, la documentazione storica, ma che importa: sono tutte narrative. Chi proprio vuole essere reazionario, scelga pure l'altra narrativa, pensi se osa che duemila anni fa a Gerusalemme ci fossero farisei e sadducei, che Hitler ha progettato la soluzione finale, che il movimento sionista abbia comprato le terre che dissodava e via "narrando". Si accontenti delle sue prove, ma sappia che la rivoluzione lo spazzerà via. Oltre che i giornalisti americani e gli italiani che li imitano, la teoria delle narrative va alla grande anche fra i negazionisti: scorrendo i commenti allucinanti che accompagnano su Youtube il trailer della "Chiave di Sara", colpisce l'idea che nel mondo sarebbe in corso uno "Shoah show" allestito guarda un po' dai sionisti "dopo la guerra del '67"; e la stessa idea è difesa in libri che parlano di "industria della Shoah" o di "Israel lobby", senza fare troppo differenza fra le due cose. Della teoria che non vi sia una verità, ma solo opinioni o interpretazioni o narrative esistono naturalmente molte versioni, la maggior parte delle quali non c'entrano affatto col negazionismo o con la propaganda palestinese; ma io tendo a pensare che anche quelle al di sopra di ogni contagio del genere siano intellettualmente rischiose, perché esimono chi le sostiene dal portare prove razionali delle proprie posizioni. Non è questo il luogo per discuterne adeguatamente sul piano teorico. Vale la pena comunque di chiarire che naturalmente nessuno crede che la verità sia là, già bell'e finita, pronta a essere afferrata. Ci sono verità che si affermano per fede e noi come ebrei lo sappiamo bene, dato che usiamo questo concetto come uno dei nomi divini e a ogni lettura liturgica dello Shemà lo affermiamo. Parlando invece di verità in senso meno forte, cioè empirico, per "dire che vi è quel che vi è e che non vi è quel che non è", come la definiva Aristotele, è chiaro che si tratta di un obiettivo regolativo, che nella maggior parte dei casi può essere raggiunto solo parzialmente, o magari solo per quel tanto che basta a escludere dal nostro orizzonte mentale le falsità che emergono. E naturalmente vi sono molti argomenti in cui effettivamente non vi sono fatti, ma opinioni, fedi, interessi, che bisogna accettare come irrimediabilmente e magari positivamente plurali e che si tratta di far convivere nella maniera meno rissosa e più costruttiva possibile. Resta il fatto che in molti casi lo sforzo verso la verità empirica va assunto come criterio deontologico fondamentale: l'onestà intellettuale, che dovrebbe essere qualità comune di scienziati e intellettuali e magari anche dei giornalisti, si misura sulla capacità di riconoscere i fatti anche se smentiscono le nostre teorie, e di essere perfino contenti per tali smentite, che ci consentono di migliorare e correggere le nostre teorie. Da questo punto di vista il peggior nemico della verità è l'ideologia, cioè quell'atteggiamento che non consente a dei banali dettagli di fatto di modificare le nostre splendide visioni. In fondo pensare che non ci siano fatti (o gatti) ma solo interpretazioni, e che le verità siano in realtà narrative o costruzioni propagandistiche, è la premessa per dire che chi decide di ciò che è vero è il potere, cioè la politica. Non a caso l'affermazione di Nietszche apparve in quei "frammenti postumi" che furono intitolati "Volontà di potenza". Noi ebrei siamo stati vittime nel corso di tutta la nostra storia, dal Faraone della Torah fino a Hitler e Nasser e Arafat delle volontà di potenza che intralciavamo, col semplice fatto di esistere. Per converso la nostra vita intellettuale è stata sempre segnata da un'appassionata ricerca della verità, secondo il metodo più limpido della discussione aperta di opinioni divergenti che cercavano di falsificarsi a vicenda. E' importante che non ci rassegniamo al nichilismo delle narrative. Ugo Volli http://www.moked.it/
lunedì 16 gennaio 2012
Fatti e interpretazioni
Per qualche anno è andato di moda nelle università di mezzo mondo citare con approvazione l'aforisma di Friedrich Nietzsche per cui "non ci sono fatti ma solo interpretazioni". La smentita più spiritosa che ho sentito è quello di Maurizio Ferraris, che la porta all'assurdo con un semplice cambio di consonante: se è così, allora fra l'altro bisogna dire che "non ci sono gatti ma solo interpretazioni". Comunque un bel pezzo dell'accademia si è impegnato per anni a insegnarci quanto fosse ingenua l'idea della verità: non esiste, hanno pontificato in tanti, non esiste un giornalismo oggettivo, non esiste una storia vera o in generale una scienza neutrale - solo interpretazioni. La storia la scrivono i vincitori, la scienza dipende dagli interessi del capitale. Questa variante del "pensiero debole" (che non a caso ha avuto fra i suoi principali esponenti italiani quel Gianni Vattimo, così nemico di Israele che un giorno disse in pubblico - per paradosso, è chiaro, solo per paradosso - che stava arrivando a credere ai "Protocolli dei savi di Sion") potrebbe essere archiviata fra le bizzarrie dell'accademia, e infatti la moda infatti è già girata, se non avesse contagiato politici, giornalisti, politologi. La versione tarda che costoro adottano, probabilmente essendo stati formati in quel quadro teorico molto fragile filosoficamente ma aggressivo sui media che è il postmodernismo americano, si caratterizza con la bizzarra terminologia delle "narrative". Non vi sarebbe una verità sull'insediamento ebraico in Israele, per esempio, ma solo delle "narrative", in particolare quella cattiva, sionista, e quella buona, "resistente" cioè palestinese: scegliere fra loro sarebbe solo questione di gusti, o meglio di schieramento. Se uno vuole stare dalla parte del prgresso e della giustizia, accoglie la "narrativa" per cui non vi è mai stato un tempio sul montre di Sion, gli ebrei attuali sono tutti più o meno discendenti dei Kuzari e dunque turchi, e Ben Gurion ha progettato ed eseguito la pulizia etnica della "Palestina", magari dopo aver incitato i nazisti a perseguitare gli ebrei non sionisti per produrre l'immigrazione "coloniale" in "Palestina" che voleva. E' una narrativa un po' contrastante con testimonianze come la storia romana, l'archeologia, la Bibbia, la documentazione storica, ma che importa: sono tutte narrative. Chi proprio vuole essere reazionario, scelga pure l'altra narrativa, pensi se osa che duemila anni fa a Gerusalemme ci fossero farisei e sadducei, che Hitler ha progettato la soluzione finale, che il movimento sionista abbia comprato le terre che dissodava e via "narrando". Si accontenti delle sue prove, ma sappia che la rivoluzione lo spazzerà via. Oltre che i giornalisti americani e gli italiani che li imitano, la teoria delle narrative va alla grande anche fra i negazionisti: scorrendo i commenti allucinanti che accompagnano su Youtube il trailer della "Chiave di Sara", colpisce l'idea che nel mondo sarebbe in corso uno "Shoah show" allestito guarda un po' dai sionisti "dopo la guerra del '67"; e la stessa idea è difesa in libri che parlano di "industria della Shoah" o di "Israel lobby", senza fare troppo differenza fra le due cose. Della teoria che non vi sia una verità, ma solo opinioni o interpretazioni o narrative esistono naturalmente molte versioni, la maggior parte delle quali non c'entrano affatto col negazionismo o con la propaganda palestinese; ma io tendo a pensare che anche quelle al di sopra di ogni contagio del genere siano intellettualmente rischiose, perché esimono chi le sostiene dal portare prove razionali delle proprie posizioni. Non è questo il luogo per discuterne adeguatamente sul piano teorico. Vale la pena comunque di chiarire che naturalmente nessuno crede che la verità sia là, già bell'e finita, pronta a essere afferrata. Ci sono verità che si affermano per fede e noi come ebrei lo sappiamo bene, dato che usiamo questo concetto come uno dei nomi divini e a ogni lettura liturgica dello Shemà lo affermiamo. Parlando invece di verità in senso meno forte, cioè empirico, per "dire che vi è quel che vi è e che non vi è quel che non è", come la definiva Aristotele, è chiaro che si tratta di un obiettivo regolativo, che nella maggior parte dei casi può essere raggiunto solo parzialmente, o magari solo per quel tanto che basta a escludere dal nostro orizzonte mentale le falsità che emergono. E naturalmente vi sono molti argomenti in cui effettivamente non vi sono fatti, ma opinioni, fedi, interessi, che bisogna accettare come irrimediabilmente e magari positivamente plurali e che si tratta di far convivere nella maniera meno rissosa e più costruttiva possibile. Resta il fatto che in molti casi lo sforzo verso la verità empirica va assunto come criterio deontologico fondamentale: l'onestà intellettuale, che dovrebbe essere qualità comune di scienziati e intellettuali e magari anche dei giornalisti, si misura sulla capacità di riconoscere i fatti anche se smentiscono le nostre teorie, e di essere perfino contenti per tali smentite, che ci consentono di migliorare e correggere le nostre teorie. Da questo punto di vista il peggior nemico della verità è l'ideologia, cioè quell'atteggiamento che non consente a dei banali dettagli di fatto di modificare le nostre splendide visioni. In fondo pensare che non ci siano fatti (o gatti) ma solo interpretazioni, e che le verità siano in realtà narrative o costruzioni propagandistiche, è la premessa per dire che chi decide di ciò che è vero è il potere, cioè la politica. Non a caso l'affermazione di Nietszche apparve in quei "frammenti postumi" che furono intitolati "Volontà di potenza". Noi ebrei siamo stati vittime nel corso di tutta la nostra storia, dal Faraone della Torah fino a Hitler e Nasser e Arafat delle volontà di potenza che intralciavamo, col semplice fatto di esistere. Per converso la nostra vita intellettuale è stata sempre segnata da un'appassionata ricerca della verità, secondo il metodo più limpido della discussione aperta di opinioni divergenti che cercavano di falsificarsi a vicenda. E' importante che non ci rassegniamo al nichilismo delle narrative. Ugo Volli http://www.moked.it/
Per qualche anno è andato di moda nelle università di mezzo mondo citare con approvazione l'aforisma di Friedrich Nietzsche per cui "non ci sono fatti ma solo interpretazioni". La smentita più spiritosa che ho sentito è quello di Maurizio Ferraris, che la porta all'assurdo con un semplice cambio di consonante: se è così, allora fra l'altro bisogna dire che "non ci sono gatti ma solo interpretazioni". Comunque un bel pezzo dell'accademia si è impegnato per anni a insegnarci quanto fosse ingenua l'idea della verità: non esiste, hanno pontificato in tanti, non esiste un giornalismo oggettivo, non esiste una storia vera o in generale una scienza neutrale - solo interpretazioni. La storia la scrivono i vincitori, la scienza dipende dagli interessi del capitale. Questa variante del "pensiero debole" (che non a caso ha avuto fra i suoi principali esponenti italiani quel Gianni Vattimo, così nemico di Israele che un giorno disse in pubblico - per paradosso, è chiaro, solo per paradosso - che stava arrivando a credere ai "Protocolli dei savi di Sion") potrebbe essere archiviata fra le bizzarrie dell'accademia, e infatti la moda infatti è già girata, se non avesse contagiato politici, giornalisti, politologi. La versione tarda che costoro adottano, probabilmente essendo stati formati in quel quadro teorico molto fragile filosoficamente ma aggressivo sui media che è il postmodernismo americano, si caratterizza con la bizzarra terminologia delle "narrative". Non vi sarebbe una verità sull'insediamento ebraico in Israele, per esempio, ma solo delle "narrative", in particolare quella cattiva, sionista, e quella buona, "resistente" cioè palestinese: scegliere fra loro sarebbe solo questione di gusti, o meglio di schieramento. Se uno vuole stare dalla parte del prgresso e della giustizia, accoglie la "narrativa" per cui non vi è mai stato un tempio sul montre di Sion, gli ebrei attuali sono tutti più o meno discendenti dei Kuzari e dunque turchi, e Ben Gurion ha progettato ed eseguito la pulizia etnica della "Palestina", magari dopo aver incitato i nazisti a perseguitare gli ebrei non sionisti per produrre l'immigrazione "coloniale" in "Palestina" che voleva. E' una narrativa un po' contrastante con testimonianze come la storia romana, l'archeologia, la Bibbia, la documentazione storica, ma che importa: sono tutte narrative. Chi proprio vuole essere reazionario, scelga pure l'altra narrativa, pensi se osa che duemila anni fa a Gerusalemme ci fossero farisei e sadducei, che Hitler ha progettato la soluzione finale, che il movimento sionista abbia comprato le terre che dissodava e via "narrando". Si accontenti delle sue prove, ma sappia che la rivoluzione lo spazzerà via. Oltre che i giornalisti americani e gli italiani che li imitano, la teoria delle narrative va alla grande anche fra i negazionisti: scorrendo i commenti allucinanti che accompagnano su Youtube il trailer della "Chiave di Sara", colpisce l'idea che nel mondo sarebbe in corso uno "Shoah show" allestito guarda un po' dai sionisti "dopo la guerra del '67"; e la stessa idea è difesa in libri che parlano di "industria della Shoah" o di "Israel lobby", senza fare troppo differenza fra le due cose. Della teoria che non vi sia una verità, ma solo opinioni o interpretazioni o narrative esistono naturalmente molte versioni, la maggior parte delle quali non c'entrano affatto col negazionismo o con la propaganda palestinese; ma io tendo a pensare che anche quelle al di sopra di ogni contagio del genere siano intellettualmente rischiose, perché esimono chi le sostiene dal portare prove razionali delle proprie posizioni. Non è questo il luogo per discuterne adeguatamente sul piano teorico. Vale la pena comunque di chiarire che naturalmente nessuno crede che la verità sia là, già bell'e finita, pronta a essere afferrata. Ci sono verità che si affermano per fede e noi come ebrei lo sappiamo bene, dato che usiamo questo concetto come uno dei nomi divini e a ogni lettura liturgica dello Shemà lo affermiamo. Parlando invece di verità in senso meno forte, cioè empirico, per "dire che vi è quel che vi è e che non vi è quel che non è", come la definiva Aristotele, è chiaro che si tratta di un obiettivo regolativo, che nella maggior parte dei casi può essere raggiunto solo parzialmente, o magari solo per quel tanto che basta a escludere dal nostro orizzonte mentale le falsità che emergono. E naturalmente vi sono molti argomenti in cui effettivamente non vi sono fatti, ma opinioni, fedi, interessi, che bisogna accettare come irrimediabilmente e magari positivamente plurali e che si tratta di far convivere nella maniera meno rissosa e più costruttiva possibile. Resta il fatto che in molti casi lo sforzo verso la verità empirica va assunto come criterio deontologico fondamentale: l'onestà intellettuale, che dovrebbe essere qualità comune di scienziati e intellettuali e magari anche dei giornalisti, si misura sulla capacità di riconoscere i fatti anche se smentiscono le nostre teorie, e di essere perfino contenti per tali smentite, che ci consentono di migliorare e correggere le nostre teorie. Da questo punto di vista il peggior nemico della verità è l'ideologia, cioè quell'atteggiamento che non consente a dei banali dettagli di fatto di modificare le nostre splendide visioni. In fondo pensare che non ci siano fatti (o gatti) ma solo interpretazioni, e che le verità siano in realtà narrative o costruzioni propagandistiche, è la premessa per dire che chi decide di ciò che è vero è il potere, cioè la politica. Non a caso l'affermazione di Nietszche apparve in quei "frammenti postumi" che furono intitolati "Volontà di potenza". Noi ebrei siamo stati vittime nel corso di tutta la nostra storia, dal Faraone della Torah fino a Hitler e Nasser e Arafat delle volontà di potenza che intralciavamo, col semplice fatto di esistere. Per converso la nostra vita intellettuale è stata sempre segnata da un'appassionata ricerca della verità, secondo il metodo più limpido della discussione aperta di opinioni divergenti che cercavano di falsificarsi a vicenda. E' importante che non ci rassegniamo al nichilismo delle narrative. Ugo Volli http://www.moked.it/
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