"La stanza di Rodinsky" di Rachel Lichtenstein e Iain Sinclair
Negli anni ottanta, nell’East End di Londra, il vecchio quartiere ebraico, in una soffitta sopra la sinagoga abbandonata viene scoperta una stanza sigillata. Dentro, in un intrico di ragnatele da film di fantasmi, migliaia di libri con chiose e quaderni di appunti in sumerico, arabo, giapponese, ebraico, yiddish, greco, russo, geroglifici egiziani, dovevano essere appartenuti a un misterioso erudito che aveva vissuto lì. C’erano tracce di cibo kasher, la lista della spesa per lo Shabbat, un diagramma cabalistico, lunghe palandrane nere riposte in un armadio, indizi che suggerivano l’ortodossia religiosa dell’uomo. In seguito si scoprì che si trattava di David Rodinsky, un ebreo forse di origine polacca, custode della sinagoga, scomparso improvvisamente nel 1961. Testimonianze e indagini d’archivio erano contraddittorie su chi fosse veramente, se un vero “Zaddiq”, un individuo probo, o un buffone di sacrestia, un grande studioso del Talmud o un perdigiorno ubriacone, un generoso benefattore o un poveraccio che viveva della carità della comunità. La stampa, affamata di miti, si avventa sulla storia, la monta: Rodinsky diventa inscindibile dal luogo, dalla dissoluzione del ghetto ebraico. Spunta perfino la tesi di una specie di complotto: interessi costituiti che preferivano tenere quel guardiano disgraziato sepolto negli archivi, archivi a loro volta andati perduti o distrutti. La sua vita diventa leggenda, la stanza di Princelet Street viene fotografata in ogni dettaglio, la sinagoga abbandonata diventa il set per film sul Golem, il gigantesco demone d’argilla del folklore, si prova a creare un culto che possa rivaleggiare con quello di Anna Frank. La casa della ragazzina è diventata la rappresentazione spettrale di una persona che col suo “Diario” dà voce a tutte le altre vite scomparse senza lasciare traccia. E’ diventata un’industria turistica, addirittura uno dei luoghi più visitati del mondo. Ad Amsterdam, lungo il canale Prinsengracht, si vede sempre una coda chilometrica di una folla impaziente di commuoversi davanti ai cimeli della povera Anna. Questa “Stanza di Rodinsky” diventa invece il punto di partenza di due diversi percorsi, che talvolta si intrecciano e si spiegano reciprocamente. Il primo è più semplice, anche se di carattere introspettivo. Rachel Lichtenstein sta raccogliendo materiale per la sua tesi di laurea sull’immigrazione ebraica dall’Europa dell’est verso l’East End di Londra. Ha già percorso in lungo e in largo la Polonia, dove ha ritrovato anche tracce dei suoi nonni paterni, che erano emigrati intorno al 1930 e, arrivati nella nuova patria, avevano deciso di anglicizzare il loro nome in Laurence. Lei, Rachel, appena maggiorenne, aveva riassunto la vera, antica identità di Lichtenstein. Sempre alla ricerca di nuova documentazione, visita la sinagoga al 19 di Princelet Street, accanto a dove vivevano i suoi. Qui si imbatte per caso nel personaggio di Rodinsky e ne resta intrappolata come in una ragnatela. A furia di studiare nella gelida stanza di Rodinsky, Rachel si ammala. Va in Israele. Intanto prosegue le ricerche. Torna, si sposa. Ha un figlio che chiama David, come Rodinsky. Fa una mostra con quei cimeli accanto a quelli del nonno. Incontra Iain Sinclair, uno dei primi a entrare nella stanza sigillata e a fotografarla. Lui ci racconta un’altra storia, o un’altra versione. Come nel film “Rashomon” di Kurosawa, la verità ha mille sfaccettature, è inafferrabile. Sinclair è una specie di Dickens dei giorni nostri, conosce i bassifondi di Londra, le storie più oscure. Sembra cinico, poi capisci la rabbia e la compassione. Fa del sarcasmo sull’ossessione di Rachel Lichtenstein, su quel cialtrone di Rodinsky e insieme li ammira come custodi di un mondo che sta scomparendo.© - FOGLIO QUOTIDIANO
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