venerdì 20 gennaio 2012


Quando si discute, le parole contano. Contano per il contenuto e il significato, ma anche per il suono e l'accento. In questi giorni si parla molto di "haredím", il collettivo degli ebrei molto osservanti delle tradizioni e, in misure variabili, in cerca di segregazione dalla società moderna. È un collettivo che è difficile da definire chiaramente, e che se proprio esiste, è peraltro eterogeneo ideologicamente, con storie e realtà diverse, frammentato fra correnti in perpetua e accanita competizione reciproca. E come tutti i gruppi umani, con le sue buone aliquote di moderazione e di estremismo, di santità e di devianza. La parola "harèd", traducibile con "timorato" ma anche "preoccupato", "impaurito", "in preda al panico", per associazione comunitaria al singolare "haredí", e al plurale "haredím", inizia in ebraico con la consonante "hèt", che produce un suono gutturale forte e profondo. Il suono della "hèt" contraddistingue le lingue semitiche e il Medio Oriente. Pochissimi in occidente la sanno pronunciare bene. Quasi tutti la confondono con la lettera "hé" che corrisponde a una semplice acca aspirata. D'altra parte, molti confondono la "hé" con la "alef", che non ha nessun suono. Ma "hèt" semmai assomiglia a una "ch". Non proprio, perché per esprimere questo suono palatale esiste la consonante "caf", purché non all'inizio di una parola quando il suo suono equivale a quello di una kappa. Ma in definitiva la "hèt di "haredím" è una consonante dal suono forte. Di conseguenza, quando in italiano si parla del collettivo, l'uso corretto dell'articolo è sempre "i haredím" e non "gli haredím", come invece si legge frequentemente in Italia sulla stampa in generale ma anche sulla stampa ebraica. Lo strafalcione va fatto notare e va corretto. Se riusciamo a metterci d'accordo sulla pronuncia e sull'uso esatto delle parole, forse poi potremo concordare anche sul loro significato e sulle loro implicazioni più profonde.Sergio Della Pergola univ ebraica Gerusalemme. http://www.moked.it/

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