venerdì 20 gennaio 2012

Voci a confronto

Si approssima il giorno della memoria, oramai il dodicesimo, e come di prassi si intensificano le iniziative da parte degli enti locali, delle Regioni così come delle autorità pubbliche ma anche delle scuole e dell’ampio mondo della pubblicistica. Si vedano, al riguardo, gli articoli di Ida Palisi su il Mattino, di Francesca Nunberg per il Messaggero ma anche il Secolo XIX. Nei giorni a venire ci misureremo, se ne può stare certi, su una grande quantità di segnalazioni. La lamentazione più comune, del tutto sottoscrivibile, è che il carnet di eventi è ogni anno talmente così robusto da rendere impossibile a chi vuole partecipare a più iniziative di esservi presente, essendo nella quasi totalità concomitanti o sovrapposte. In realtà, fatta salva l’indiscutibile funzione di pedagogia civile che tale genere di ricorrenza cerca di assolvere, il merito della sua fungibilità culturale è invece oggetto da tempo di discussione. Si tratta, ovviamente, di una riflessione complessa, piena di interrogativi, che trova nel 27 gennaio la data più significativa ma che si riallaccia all’insieme delle ricorrenze che il calendario civile riconosce come tappe della coscienza repubblicana e democratica. Tra di esse sia sufficiente richiamare il 10 febbraio, giorno del ricordo dell’esodo italiano dai territori del confine orientale, il 25 aprile, il 1° di maggio, il 9 maggio, giorno delle vittime del terrorismo, il 2 giugno, il 4 novembre e altre date ancora, istituzionalizzate e più o meno celebrate, con maggiore o minore intensità e partecipazione, di pubblico come di stampa. Si tratta di commemorazioni di taglio diverso per eventi distinti della storia nazionale dove tuttavia vi è un elemento comune, ossia la deferenza e il rispetto nei confronti di coloro che furono vittime di tragedie alle quali, direttamente o indirettamente, queste date rinviano. Nonché, ed è un aspetto per nulla secondario, il rimando alla funzione di monito che il ricordo assume in ambito collettivo. Va sottolineato che tale calendario è il prodotto della maturazione di una cognizione e di una consapevolezza del valore universale che vicende di questa fatta assumono, altrimenti destinate ad essere rammentate nella semplice dimensione privata (ovvero come riflesso personale, soggettivo di una più ampia vicissitudine storica). Riconosciuto doverosamente ciò, poiché andiamo parlando non di un dovere (quello al ricordo) ma di un diritto (ad una memoria condivisa ancorché non necessariamente “pacificata”) si apre il campo, in sé legittimo, di come tutto ciò possa tradursi in un’efficace comunicazione pubblica. Poiché i rischi della ritualizzazione, della ripetizione ad oltranza, della banalizzazione, addirittura della trivializzazione sono sempre dietro l’angolo. Qualche spunto il tal senso ci è offerto del nuovo volume di Valentina Pisanty sugli «abusi di memoria», di cui il Fatto quotidiano ci dà una anticipazione. Anche Gad Lerner, su l’Espresso, con taglio sferzante e cortesemente polemico rimanda a tale groviglio di questioni così come, a modo suo, l’articolo di Francesca Angeleri su il Manifesto nel merito dell’intervento (l’unico previsto in Italia nel calendario di iniziative che sta portando avanti) di Art Spiegelman, l’autore di Maus, un fumetto il cui valore testimoniale può esser di buon grado accostato ad alcuni dei migliori libri sulla deportazione. Qualcuno ha detto, e con efficacia, che più ci allontaniamo da quei tragici eventi storici maggiore è la vicinanza di Auschwitz. Non è un paradosso, a pensarci bene. La cesura dello sterminio pesa mano a mano che la sua concretezza fattuale si congeda da noi per essere sostituita dalle immagini, dai ricordi traslati, trasferiti di generazione in generazione, dalle assenze che si fanno, nella memoria, presenze vive e dolorose. Il passato, da questo punto di vista, non lenisce l’inconsolabilità. Semmai l’accentua, e non è lo Yom ha-Shoah, che è cosa diversa dal Giorno della Memoria, a potere surrogare o placare una somma di sofferenze individuali e familiari accomunate dall’appartenenza ad una comune tradizione e ad un vincolo di reciprocità che si fa, nella parola di senso condiviso, «popolo». La sfida rimane quindi intatta, poiché demanda alla comunicabilità verso chi è estraneo a queste vicende, chiamandolo comunque in causa in quanto cittadino dello stesso spazio pubblico, allora, quando la tragedia si consumò, così come oggi. Quanto tutto ciò possa diventare cognizione condivisa è questione aperta che, come ben sappiamo, non passa solo attraverso un pur doveroso impegno pubblico, che di certo non ha fatto difetto dal 2001 in poi. Peraltro è la stessa concezione di «dimensione pubblica», di spazio collettivo che va mutando. Anche qui, partendo da una singola notizia, quella commentata da Luigi Offeddu per il Corriere della Sera, nella quale veniamo a sapere che nelle scuole di Bruxelles, capitale del Belgio ma anche dell’Unione Europea, l’insegnamento della religione musulmana ha superato quello degli altri culti e dei corsi di «morale laica». Fenomeno, questo, variamente interpretabile ma che ci segnala, nella sua natura di episodio indice, il cambiamento che le nostre società, e quindi, di immediato riflesso, la loro coscienza collettiva, stanno subendo. In un’Europa dove la presenza di immigrati di origini extracontinentale e, soprattutto, arabo-musulmana, ha concorso a mutare in vent’anni gli assetti sociodemografici, incidendo, secondo le proiezioni statistiche, anche per il futuro (ed in misura sempre più corposa), il problema di una ridefinizione del senso della cittadinanza, che si basa sulla condivisione di un comune sentire, si è fatto così urgente da essere inderogabile. E tuttavia trovare dei fili comuni sulla base dei quali tessere un rapporto di reciprocità con chi si sente estraneo alla nostra storia, se non a volte addirittura ostile, è un’impresa epica, una fatica di Sisifo. È fatto noto l’indisponibilità con la quale in molte realtà islamiche venga recipito qualsiasi discorso sulla Shoah. Prima ancora che bollare tali atteggiamenti, spesso dichiaratamente ostili, dello stigma di antisemitismo, occorrerebbe indagare sulle radici di un rifiuto. In alcuni casi – purtroppo non pochi – esso si incontra e dà corpo di certo al fantasma antisemita tout court: si rifiuta il ricordo sofferente dell’ebreo di ieri per meglio denigrare l’individuo in carne ed ossa oggi. Fin qui ci siamo, per così dire. Ma non è meno vero che la Shoah è vista da molti non europei come un problema di coscienza (pessima) del nostro continente. La qual cosa fa sì che dietro ai dinieghi e ai silenzi ci sia non solo il pregiudizio ma anche il convincimento, non importa quanto errato, d’essere immuni da quest’ultimo. E di costituire, semmai, parte della più amplia platea di “vere” vittime, quelle del colonialismo, il cui statuto si contrappone alle “vittime eurocentriche”, di cui gli ebrei sarebbero, ancora una volta, gli indebiti usurpatori del titolo. Sempre più spesso dovremo confrontarci con questo ordine di situazioni. In Francia è un problema diffuso, ad esempio nelle scuole superiori dove la multiculturalità, che è un dato di fatto che poco o nulla ha a che fare con l’interculturalità, fa sì che in certe classi, dove spiccata è la presenza maghrebina, la docenza abbia serie difficoltà ad affrontare “laicamente” il tema delle deportazioni. Non basterà la condanna, pur legittima, dell’altrui travisazione e manipolazione (le due cose sono poi facce della stessa medaglia) per venirne fuori se, come ci dicono alcuni proiezioni statistiche, la demografia del 2050, in Italia, vedrà un 25 per cento della popolazione di origine allogena. Certo, non non ci saremo più o saremo troppo vecchi per preoccuparcene oltre misura. Ma i nostri figli e nipoti saranno lì. E visto che la memoria parla del (e al) passato per costruire il futuro sarebbe bene che ci riflettessimo un po’ sopra da subito.Claudio Vercelli, http://moked.it/

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