venerdì 3 febbraio 2012

Un altro realismo per Yehoshua

Il suo romanzo «La scena perduta»

È a due terzi del suo ultimo romanzo, per l'esattezza a pagina 209 de La scena perduta (Einaudi, pp. 372, 21, traduzione di Alessandra Shomroni) che Abraham B. Yehoshua si autobacchetta, o forse getta la maschera, comunque sia ingrana una marcia più «sprintosa» per correre verso il traguardo della storia. Lo scatto sta in una verità pronunciata da Amsalem, il vecchio produttore amico di Yair Moses, il regista protagonista del racconto: «Non siamo più giovani, e con le poche forze che ci rimangono dobbiamo guardare avanti, non indietro».Fino a quel punto Yehoshua, tramite il suo alter ego Moses, aveva fatto esattamente il contrario: aveva tenuto la testa girata all'indietro, indulgendo sull'esplorazione e sulla memoria della propria creazione artistica - cinematografica o letteraria poco cambia, il romanziere è regista, sceneggiatore, attore, scenografo. Aveva insomma riflettuto sul destino e sul mistero dell'arte, della propria arte.In un intreccio dove gelosia e passione, malinconia, invidia e rancori, ma anche tenerezza e un poco di suspence si mescolano per dar corpo a una trama che è principalmente percorso analitico, gli attori de La scena perduta sono alle prese con quell'azione che banalmente chiamiamo «fare bilanci», personali, professionali o, più spesso, personali e professionali insieme.Tutto ruota intorno al settantenne Yair Moses: invitato in Spagna, a Santiago di Compostela, per una retrospettiva di tre giorni a lui dedicata, si fa accompagnare da Ruth, sua attrice preferita e in qualche modo sua «compagna» dopo il divorzio dalla moglie.Quando tornano a Tel Aviv, però, la retrospettiva continua e diventa un lungo percorso alla ricerca del passaggio dalla potenza creativa iniziale, surreale, a una maturità esasperatamente realistica.Per dare un volto al mutamento - in cui si intravedono anche il cammino e il cambiamento di Israele dalla nascita a oggi - Yehoshua ricorre alle due tipologie cardine israeliane: l'ashkenazita colto, solido, frutto della generazione pionieristica che costruì lo Stato, il regista Moses appunto, e lo sceneggiatore dalla fantasia visionaria, fuori dagli schemi, Shaul Trigano, figlio delle prime immigrazioni magrebine.Misteriosamente, perennemente, sullo sfondo appare un'immagine sconvolgente e sensuale, la riproduzione della Caritas romana, raffigurazione della giovane nell'atto di allattare il padre condannato a morire di fame... una scena pensata, studiata, discussa, sofferta, urlata, mai girata, mai dimenticata.È forse lo Yehoshua più riflessivo e simbolico che si sia mai letto. Ma La scena perduta è anche la confessione (pentimento? espiazione?) della perdita avvenuta nel passaggio da genio inventivo che mina un sistema di valori, a realismo, costanza, metodo e difesa della costruzione. E l'accusa di Trigano a Moses è di non avere nemmeno capito come i primi film girati insieme volessero combattere il fanatismo religioso.Direbbero i critici letterari: il grottesco, l'onirico come dissenso sociale. Kafka torna spesso nei dialoghi, si respira qua e là nostalgia di Ionesco, di Beckett, di Camus.Poi Yehoshua getta la maschera: «Non siamo più giovani, e con le poche forze che ci rimangono dobbiamo guardare avanti, non indietro».Ed ecco, finalmente, di nuovo le atmosfere simboliche, le metafore necessarie a tener duro rispetto alla realtà quotidiana. Ecco Trigano e Moses compensarsi l'un l'altro, precipitarsi fuori dall'automobile a pochi chilometri da Gaza, gettarsi in un fossato per mettersi al riparo dai missili che piovono dal cielo. E nella notte squarciata dal bagliore dei razzi Qassam parlare di pace, della pace che ci sarà.Stefano Jesurum, http://www.corriere.it/

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