domenica 11 marzo 2012

Voci a confronto

Cominciamo il commento alla rassegna stampa di oggi con il rimando ad un articolo de l’Avvenire dove un interlocutore siriano non meglio indentificato – al di là dello pseudonimo che si è dato, Rami, per meglio tutelare la sua incolumità – segnala come nel fronte di forze che si contrappongono al clan Assad, all’interno della guerra contro i civili che è in corso in Siria, si stia affermando le presenza dei «barbuti», ossia degli islamisti, legati a doppio filo alle monarchie reazionarie del Golfo ed in particolare al wahabismo (sulla medesima testata un articolo di Federica Zoja evidenzia, in questo quadro altrimenti predominato dall’Arabia Saudita, della peculiarità del Qatar) così come ai movimenti salafisti. È un contrappasso che sta interessando, sia pure con intensità diverse, tutte le sollevazioni popolari e le insorgenze civili che dall’inverno dell’anno scorso hanno attraversato la cosiddetta «primavera araba». Dalle richieste di liberalizzazione politica, dalla domanda di un allentamento della presa dittatoriale dei regimi «laici», dal bisogno di trasformare le società locali introducendo, anche e soprattutto a livello economico, elementi di maggiore equità, si è progressivamente transitati, a fronte della reazione aggressiva o elusiva dei gruppi dirigenti al potere, ad un progressivo slittamento verso esiti fondamentalisti. La cosa non riguarda tanto la popolazione quanto le élite delle ribellioni, le quali hanno perso i caratteri spontanei per essere cavalcate da gruppi (già) organizzati, in parte clandestinamente presenti sul territorio in parte introdottisi durante gli scontri e le violenze in corso oramai già da tempo. Era purtroppo prevedibile un tale risultato, laddove nessuna riforma sostanziale è stata varata e i vecchi equilibri sono rimasti pressoché intatti, magari con una qualche opera di maquillage estemporaneo, con l’estromissione del rais di turno e la sua sostituzione con un cadetto o, comunque, con un garante degli interessi dei già tutelati e dei privilegiati. Il veloce incancrenimento delle sollevazioni popolari, rimaste senza obiettivo, inascoltate e disattese nelle loro istanze elementari e, quindi, ripiegate dinanzi a forze, come quelle del radicalismo islamico, ben preparate a capitalizzare lo scompiglio collettivo, è un fenomeno che peserà moltissimo nei già precari equilibri del Mediterraneo e del Medio Oriente a venire. La Siria, da questo punto di vista, rimane un banco di verifica aperto, sul quale pesano molte incognite, fermo restando che la sorte degli Assad e, verosimilmente, dei clan alawiti che li sostengono, parrebbe essere segnata. Si tratta di capire quando i primi cederanno, sopraffatti dalla forza montante degli oppositori. Dopo di che Damasco, come è ben risaputo, costituisce un tassello di un più ampio mosaico, dove entrano in gioco non solo i periclitanti meccanismi di mantenimento di un incerto status quo in Libano ma anche e soprattutto il gioco di sponda con Teheran e quello con i movimenti radicali sciiti a partire da Hezbollah. È quanto segnala Vittorio Emanuele Parsi, sempre su l’Avvenire, dove prospetta un quadro di perdurante guerra civile. Più in generale, lo stato della situazione è raccontato, sempre sul quotidiano cattolico, da Luca Geronico e da Marino Collacciani per il Tempo. Nel mentre, lo scambio di colpi intercorso tra Israele e Gaza è raccontato in più e diversi modi da Francesco Battistini per il Corriere della Sera, Roberta Zunini su il Fatto, Michele Giorgio per il Manifesto («Israele fa strage di palestinesi»), Eric Salerno su il Messaggero, Fabio Scuto per Repubblica, Ugo Tramballi su il Sole 24 Ore, Umberto De Giovannangeli per l’Unità, Marino Collaccinani sul Tempo e Aldo Baquis sulla Stampa. Inutile segnalare come ancora una volta prevalgano le opinioni avverse all’iniziativa d’Israele. L’analizzarle una ad una diventa oramai un esercizio che è parte stessa di quell’infernale meccanismo che riproduce ad infinitum il pavlovismo con il quale si pone il problema del giudizio sul confronto tra palestinesi ed israeliani. In altre parole, la guerra di posizione delle interpretazioni, dove atteggiamenti e valutazioni sono preventivamente definiti, è solo l’altra faccia del conflitto guerreggiato. Prevale su tutto e tutti l’inerzialità, al punto che non c’è neanche bisogno di aprire e leggere certe pagine per sapere cosa diranno e, soprattutto, come lo faranno. Lungi dall’essere espressione di una vocazione etica, la reiterazione compulsiva di certi schemi d’interpretazione risponde alla più completa mancanza di interesse per la comprensione delle dinamiche che stanno alimentando ciò che è invece solo un apparente stallo nei rapporti tra paesi che appartengono ad una regione, quella mediorientale, in forte trasformazione. Nulla sarà più come prima laddove certi processi dovessero arrivare a compimento, a partire dal progressivo disimpegno americano (ma non è tuttavia l’unico indice geopolitico da considerare) e dalla dialettica negativa tra le istanze popolari, espressesi nelle sollevazioni dei mesi trascorsi, e la risposta oppressiva che in più casi è sopravvenuta. Più in generale, siamo in prossimità di un transito, quello che potrebbe portarci, nel giro di un paio di lustri, da un Medio Oriente “statunitense” a un quadro di frammentazione multipolare dove Russia e Cina, patrocinatori sia manifesti che occulti di alcuni dei regimi tra i più sanguinari, consoliderebbero spazi di manovra che ancora oggi faticano a mantenere. Se il 1945 aveva segnato il declino britannico e quello francese, egemonie in entrambi i casi ridimensionate clamorosamente dagli esiti della Seconda guerra mondiale, gli assetti che si vanno ancora nebulosamente delineando, sia nell’area mediterranea che il quella afghano-pakistana, sono tuttavia in via di consolidamento. Un’iniziativa israeliana contro il nucleare iraniano si inserirebbe quindi dentro questo processo, i cui esiti non sono comunque aprioristicamente certi, aperti come rimangono alle più ardite possibilità. Di ogni global player in campo si può dire al momento: «troppo grosso per potersi permettere il lusso di fallire, troppo piccolo per riuscire a vincere».Claudio Vercelli, http://moked.it/blog/

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