venerdì 20 aprile 2012

Quella voce da Oslo

UN’INTUIZIONE brillante, che ha fatto scuola anche se applicata, in origine, al caso sbagliato. È la celebre frase sulla ‘banalità del male’, nella quale Hannah Arendt sintetizzò l’impressione provata di fronte all’atteggiamento di Adolf Eichmann durante il processo celebrato in Israele cinquant’anni fa (l’ex nazista fu impiccato il 31 maggio 1962). Il caso era sbagliato perché Eichmann non era affatto un banale, dimesso impiegatuccio della macchina di morte hitleriana: quello era ciò che voleva fare credere alla Corte, era la sua linea difensiva, e la Arendt abboccò. Nella catena organizzativa della Shoah, Eichmann fu il numero tre dopo Himmler e Heydrich; si fece strada con determinazione in un ambiente di brutali carrieristi, si costruì una posizione recandosi personalmente a ‘motivare’ le Einsatzgruppen, le unità mobili di sterminio sul fronte orientale che, a tratti, si mostravano stomacate dal troppo sangue; e soprattutto fu un organizzatore eccezionale, capace di smistare per l’Europa — lungo un continente in guerra — decine di migliaia di treni e di trasferire milioni di persone provvedendo a tappe, alloggi, rifornimenti. Fu tutto tranne che una persona banale.

MA L’INTUIZIONE della Arendt — che cioè nella società di massa il male non ha bisogno di condottieri o di re per dispiegarsi, gli bastano l’oscura ambizione o i rancori dei piccoli, dei ‘banali’ appunto — è felice perché ha trovato infinite conferme in mezzo secolo. E la trova adesso in Anders Breivik: caso psichiatrico quant’altri mai, certo, ma anche un ‘ultimo’ perso in un mondo fumettistico di templari, onore e radici del sangue. Tutta una paccottiglia, in circolazione fra l’odierna ultradestra europea, che nutriva i suoi giorni nelle fattorie della campagna norvegese: quando sognava di trovare nel passato di una presunta, mitica collettività originaria quella grandezza che non aveva saputo raggiungere come individuo, con i suoi studi non finiti, i lavoretti saltuari, la ‘cultura’ storica che si può trovare saltellando su internet. Ora Breivik parla, parla: ha un pubblico, un palcoscenico, può raccontare ai microfoni tutto quello che prima diceva a se stesso, camuffato dentro ridicole uniformi, davanti a uno specchio. Togliergli la parola? È imputato in un processo, non si può. Magari si doveva evitare di processarlo come se non fosse un pazzo, questo sì. Ma tant’è. Ascoltare Breivik può essere utile a guardare, sia pure in forma estrema, drammaticamente caricaturale, gli abissi dell’uomo-massa che è in ciascuno di noi. E capire come la banalità produca mostri.http://qn.quotidiano.net/


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