Varsavia 1943, la rivolta del Ghetto minuto per minuto
Tradotto il resoconto scritto subito dopo la guerra dal vice comandante degli insorti Marek Edelman
Dieci maggio 1943, ore 10 del mattino, in via Prosta, angolo via Twarda,
a Varsavia, si aprono i tombini ed esce, armi in pugno, un manipolo di
ebrei. Sono i sopravvissuti della Zob, la formazione armata della
resistenza, che hanno ingaggiato con i tedeschi un violento conflitto
armato durato quasi un mese, dal 19 aprile, e che ora, dopo aver
attraversato carponi le fogne della città, immersi nel fango e nella
melma, sbucano all’aperto, fuori dal Ghetto e salgono su un camion e
s’allontanano. Il Ghetto brucia implacabilmente mentre gli ultimi due
gruppi di combattenti resistono fino a metà giugno. Le truppe tedesche
radono al suolo le case e uccidono tutti i sopravissuti. L’insurrezione
del Ghetto ha mostrato a tutto il mondo che le vittoriose armate
hitleriane non sono affatto tali, e che alcune centinaia di uomini
possono tenere in scacco l’esercito tedesco e infliggergli consistenti
perdite.La storia di questo episodio, diventato uno dei simboli
della Seconda Guerra mondiale, è raccontata, subito dopo la fine del
conflitto, in un piccolo libro redatto dal vicecomandante degli insorti,
Marek Edelman: Il ghetto di Varsavia lotta , uscito in Polonia
nel 1946 e ora tradotto, a cura di W. Goldkorn, dalla Giuntina (pp. 113,
€ 12), una delle prime testimonianze sulla deportazione e lo sterminio
ebraico. Come ricorda nella sua prefazione, un vero e proprio racconto
sul racconto, Wlodeck Goldkorn, quando il ventiseienne resistente ebreo
polacco pubblica in patria il suo resoconto non esiste neppure la parola
Shoah o Olocausto, e il tema dello sterminio non ha ancora trovato i
suoi studiosi e le stesse testimonianze sull’evento sono appena agli
inizi. Un altro ventenne, Primo Levi, pubblicherà un anno dopo, nel
1947, il suo resoconto della deportazione ad Auschwitz-Monowitz.Lo
stile di Edelman è secco, cadenzato; il racconto, ricco di dettagli, è
intessuto di orgoglio ed eroismo. La scelta del tempo presente quale
tempo della narrazione mostra come Edelman, figura leggendaria della
storia polacca del XX secolo, viva fino in fondo l’attualità perenne di
quelle vicende, ed esprima la volontà di perpetuarne la memoria in modo
attivo. Il susseguirsi dei fatti è scandito quasi minuto per minuto; lo
sguardo del narratore - cronachista medievale, essenziale e puntuto – si
sposta nei vari punti del Ghetto, entra nel bunker del comando in via
Mila 18 (è appena ri-uscito in edizione italiana l’ampio romanzo di Leon
Uris, ebreo americano, Mila 18 , ed. Gallucci, pp. 868, 19,70,
il primo racconto romanzato della vicenda, del 1961), poi sale nelle
soffitte, entra nelle case, attraversa le strade; afferra nomi e cognomi
dei resistenti, dei feriti, dei morti, per salvarne la memoria. Veloce e
istantaneo possiede il ritmo di una cavalcata, con il susseguirsi di
scontri a fuoco, azioni, storie minime e minute nel grande affresco del
Ghetto, che è storia comune e insieme individuale.Edelman aveva
ben identificato già nel 1946 la tecnica con cui i tedeschi avevano
irretito i Consigli ebraici su cui poi s’appunterà l’attenzione
problematica di Hannah Arendt nel corso del processo di Eichmann a
Gerusalemme, rivelando nel resoconto della lotta il collaborazionismo di
una parte degli ebrei polacchi. Scrive: «L’istinto di autoconservazione
porta la psiche umana a pensare che l’importante è salvare la propria
pelle, anche a costo della vita altrui». La cosa terribile, spiega, è
che nessuno, anche in presenza di testimonianze - Edelman e i suoi
compagni stampano giornali ciclostilati distribuiti ogni giorno -, crede
che la deportazione sia la morte. La tecnica dei nazisti di dividere la
popolazione in due schieramenti finisce col produrre una situazione in
cui «degli ebrei porteranno altri ebrei verso la morte, pur di
salvaguardare la propria vita». Parole che sono state a lungo ignorate
sino a quando la Arendt, nel 1963 con La banalità del male , e poi Levi, nel 1986 con I sommersi e i salvati, hanno posto il problema della «zona grigia».Il
libro contiene inoltre una storia nella storia, quella che Goldkorn,
cronista fedele di Edelman, ci racconta nell’introduzione. Il
vicecomandante, eroe della resistenza, non solo verso i nazisti, ma
anche contro il regime autoritario e oppressivo istituito dopo il 1945,
arrestato, perseguitato fino alla caduta del regime comunista, è avvolto
non solo dalla luce radiosa della lotta, ma anche da piccole ombre che
Goldkorn racconta con grande delicatezza e precisione, e che finiscono
col renderlo ancor più interessante e vero. Come la stessa storia della
fuga dal Ghetto attraverso le fogne, con gli uomini lasciati indietro,
il rifiuto di portare in salvo con sé le prostitute ebree che avevano
accudito feriti e combattenti, con le versioni sempre mutevoli degli
episodi.Una storia politica, scrive il curatore, e perciò sempre
in marcia assieme a noi, ma anche una storia umana dalle molte
sfaccettature come quella di Wiera Gran, cantante di cabaret nel recinto
chiuso di Varsavia, emblematica per quanto riguarda l’uso e la sostanza
della memoria. Wiera - la cui vita è raccontata da un bellissimo e
inquietante libro della scrittrice polacca Agata Tusznska, Wiera Gran , l’accusata,
appena tradotto per Einaudi (pp. 316, € 20 ) - è una donna affascinante
dalla voce meravigliosa che ammalia gli ascoltatori. Fuggita dal
Ghetto, verrà inseguita tutta la vita dalla nomea di collaborazionista
che le rovinerà la carriera in Israele e in Europa. Dopo aver cantato
con Aznavour e Brel, Wiera, perseguitata dalle voci senza prove, finisce
paranoica e folle a Parigi, dove muore nel 2007. Nessuno, neppure
Edelman che sapeva, l’ha mai scagionata da quelle infamie. La memoria
cambia, dice Goldkorn, e noi con lei. Per questo il suo esercizio, come
ci aveva avvisati Levi, è complesso e incerto.MARCO BELPOLITI
http://www3.lastampa.it/
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