martedì 1 maggio 2012
La realtà di Israele
Mi
è capitato di venire in Israele la settimana appena conclusa, quella
che comprendeva Iom Hazicharon, dedicata al ricordo dei caduti delle
guerre sostenute da Israele e del terrorismo, e subito dopo Iom
Haatzmaut, la festa dell'indipendenza. Non voglio raccontare qui le mie
emozioni personali, che sono facilmente immaginabili, perché condivise
da quasi ogni ebreo italiano che abbia fatto un'esperienza analoga:
commozione, tristezza, entusiasmo, gioia. Mi sembra più significativo
cercare di riflettere su due impressioni forti che ho ricevuto dai
comportamenti che vedevo e dai discorsi delle persone con cui ho
parlato. La prima è la partecipazione e la solidarietà. Le feste
nazionali nella maggior parte dei paesi europei e anche in Italia sono
state abolite da tempo, come il nostro 4 novembre, o sono rimaste quasi
solo occasione di vacanza, senza partecipazione collettiva, se non
eventualmente di parte. Hanno perso cioè, salvo forse il 25 aprile, la
funzione mobilitante e memoriale che è caratteristica della festa, quel
ruolo di “monumenti del tempo” che la rivoluzione francese reinventò a
partire dalla tradizione religiosa. In Israele non è così. Nonostante
tutti i discorsi che si fanno e sono certamente ben fondati, sulla
frammentazione della società israeliana in settori che si parlano poco
e nonostante l'allontanamento dalla militanza sionista delle origini
perseguito sistematicamente da intellettuali e governi di sinistra
negli ultimi decenni sui media, nella politica e nella scuola,
l'impressione della partecipazione collettiva, dell'esistenza di un
soggetto comune, ci una passione patriottica largamente condivisa, è
assolutamente dominante. Le bandiere nazionali su macchine e edifici,
il silenzio e l'immobilità in risposta all'appello della sirena che
chiama due volte per Iom Hazicharon alla meditazione, la partecipazione
larghissima e piena di allegria alla festa dell'indipendenza: tutto
parla di un paese che non dimentica affatto la sua identità e anzi vi
partecipa appassionatamente. Questa impressione coincide con i dati dei
sondaggi: il quotidiano più diffuso del paese “Israel Haiom”
ne ha pubblicato l'altro giorno uno da cui si deduce che il 93% dei
cittadini sono fieri di essere israeliani l'80 per cento non vivrebbe
altrove, il 73 per cento pensa che Israele sia il paese dove si vive
meglio.Si può partire di qui per cogliere l'altro aspetto che mi
ha molto colpito. Nonostante tutte le minacce che ci preoccupano e di
cui parliamo spesso, Israele appare al visitatore come un paese molto
sereno, per nulla teso. Ormai sono veramente rari i locali pubblici
protetti da una vigilanza serrata con scanner e perquisizioni, che
erano diffusi dappertutto fino a qualche tempo fa. Anche entrando in
qualche villaggio oltre la linea verde o percorrendo le strade di
Giudea e Samaria, i check point sono piuttosto rilassati e l'atmosfera
che si respira è di sicurezza. Il paese non appare concentrato sulla
propria autodifesa, ma sullo sviluppo economico scientifico e
culturale; l'economia non risente della crisi mondiale, i musei nuovi o
rinnovati abbondano e sono molto frequentati, il clima è sereno e
rilassato. Sono rari i posti nel mondo che danno oggi questa
impressione. Ci si interroga naturalmente sulle ragioni di questa
situazione, e le risposte possono essere molte (investimenti di lungo
periodo sull'istruzione e l'economia, scelte di liberalizzazione,
sviluppo tecnologico, soluzioni efficaci di sicurezza come la barriera,
un governo che nonostante tutte le diffamazioni è il migliore da
decenni a questa parte).Ma è più interessante forse chiedersi
perché ci sorprendiamo. I fatti che ho descritto non sono nuovi, fanno
parte di un'ondata che dura da parecchi anni, diciamo dalla sconfitta
dell'ondata terrorista voluta da Arafat sotto il nome di seconda
intifada. In realtà siamo tutti, anche chi sostiene Israele, accecati
da una copertura giornalistica assolutamente scorretta, che cerca ogni
pretesto per dipingere Israele per quel che non è, non solo un paese
“occupante” o “di apartheid”, la cui democrazia sarebbe “in pericolo”,
ma anche un luogo teso e rischioso. Chi si preoccupa di Israele e lo
difende, rifiuta naturalmente le accuse più palesemente ideologiche e
diffamatorie, ma spesso non riesce a evitare il condizionamento di
rappresentazioni che ingigantiscono ogni incidente anche minimo e per
esempio corre dietro a pseudoeventi creati appositamente per fini
propagandistici, come la “flottiglia” dell'anno scorso, le
manifestazioni sporadicamente organizzate dalle organizzazioni
palestinesi e dai governi arabi degli ultimi mesi, con pochissima
partecipazione, e le fly-tiglie, che hanno coinvolto poche decine di
persone, sono state gestite facilmente dalla sicurezza e non hanno
inciso minimamente sulla vita del paese. Certo, se il progetto di una
villetta in un paese della Giudea viene descritto con toni assai più
accesi delle decine di vittime civili prodotte in Siria ogni giorno, è
difficile sottrarsi all'illusione di una guerra in atto. E però
quest'impressione è falsa, gli appelli a rompere la quiete per la
“resistenza popolare” sono sistematicamente caduti nel vuoto. Anche la
popolazione araba preferisce lo status quo ed è contenta del suo
progresso economico. Questo non significa ovviamente che il terrorismo
sia finito per sempre (nuovi tentativi vengono sventati
quotidianamente) né tanto meno che il pericolo iraniano sia scomparso.
Ma l'Israele che si può vedere oggi è tutt'altra cosa da quel che
raccontano i giornali italiani. E giustamente chi li legge qui si
indigna.Ugo
Volli - twitter @UgoVolli. http://www.moked.it/
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