venerdì 5 ottobre 2012

Hamas e Morsi rischiano di trasformare il Sinai nelle Swat pachistane

Durante l’estate appena trascorsa, per la prima volta dal 1973, una formazione di elicotteri militari ha sorvolato il Sinai. In questa appendice di terra che mette uno di fronte all’altro egiziani, israeliani e palestinesi, il 5 agosto 2012 trentacinque uomini armati hanno approfittato dell’oscurità della notte uccidendo 16 guardie di confine egiziane. Un blindato e tre auto rubate hanno poi attraversato il valico di Kerem Shalom, con l’obiettivo di rapire civili israeliani e piazzare delle cariche esplosive all’interno del territorio israeliano. Uno strike aereo ha fermato il commando prima che potesse portare a compimento la seconda parte di un attacco divenuto noto come “il massacro del Ramadan”.Gli analisti rilevano che i confini della penisola, un annesso militare la cui sovranità compete all’Egitto dopo i trattati di Camp David, non sono sicuri. Una settimana prima del massacro, due militari egiziani erano stati uccisi a Sheikh Zuweid da un uomo in moto. Sia il massacro del Ramadan che l’uccisione delle due guardie è avvenuta nella zona a nord della penisola, direttamente confinante con la striscia di Gaza.Un’intricata rete di tunnel sotterranei fa da contraltare all’enorme plateau del Sinai. Qui transitano senza sosta armi, droga, animali, persone e soldi. La porosità dei confini del Sinai, in un’analogia che suona sinistra, ricorda la porosità delle Swat pachistane, le valli pashtun da dove transitano indisturbati warlords impegnati negli ultimi scampoli di guerriglia afgana. L’analogia è multi-livello. Anche Il Cairo (come Islamabad) appare impotente nel gestire la sicurezza ad un livello centralizzato. Il Sinai è sempre stato un problema, anche prima che sostituisse Osni Mubarak.La sicurezza del Sinai è destinata ad essere il game changer nel delicato tetris delle relazioni tra i paesi che si affacciano sulla penisola. Secondo , l’attacco del 5 agosto è “una sveglia” all’Egitto. Danny Ayalon – vice ministro degli Affari Esteri israeliano – ha teso la mano a Morsi: “E’ evidente, anche a Morsi, che sulla sicurezza del Sinai c’è piena convergenza di interessi tra Israele ed Egitto”.La tesi è stata elaborata dal Begin-Sadat Institute for Strategic Studies, un influente pensatoio da cui la leadership israeliana è solita attingere nella fase di pianificazione strategica. Secondo Hillel Fischer – ricercatore del Begin-Sadat – “l’attacco dimostra che esiste una differenza tra l’Islam di Morsi che non mira a modificare l’ordine stabilito e l’islam violento, come quello visto all’opera nel ‘massacro del Ramadan’, che mira al contagio jihadista e al sovvertimento dell’ordine internazionale”.La fiducia accordata a Morsi deve fare i conti con il doppio registro usato dalla Fratellanza dopo l’attacco. Da un lato l’accusa esplicita a gruppi jihadisti palestinesi operativi a Gaza “nemici dello Stato cui rispondere con la forza”. Dall’altro, una nebulosa di accuse riconducibili alla stessa Fratellanza tirava in mezzo il Mossad – accusato di mirare alla de-stabilizzazione del Sinai per mettere in difficoltà Morsi – e le agenzie di viaggio israeliane – accusate di volere strappare turisti alle rinomate località della penisola come Sharm el-Sheikh.Dietro la coltre fumosa delle dichiarazioni della Fratellanza, l’intelligence egiziana ha individuato i colpevoli nel movimento della Palestinian Islamic Jaljala Army. Un gruppo jihadista che si muove a proprio agio nel labirinto di tunnel sotto la striscia di Gaza. La questione dei tunnel è delicata, dal momento che chiama direttamente in causa Hamas, l’organizzazione paramilitare palestinese. L’intelligence egiziana (e quella israeliana) monitorano le centinaia di tunnel sotterranei (solo 10 sono idonei al traffico di persone) e sanno perfettamente che al loro interno non si muove foglia senza che Hamas non sappia. Addirittura dietro ogni movimento vi è il pagamento di un dazio che finanzierà, presumibilmente, la guerriglia palestinese a Gaza. I guerriglieri jihadisti che hanno ucciso 16 militari egiziani godevano senza dubbio del nulla-osta di Hamas.Le parole pronunciate da Mohamed Awad – ministro degli Esteri di Hamas – suonano come la più classica delle scuse non richieste “nessuno può permettersi di minacciare la sicurezza dell’Egitto”. Dopo aver messo le mani avanti Awad ha snocciolato la solita litania di accuse strampalate al Mossad e a Israele.Hamas e Morsi vantano buoni rapporti e sono intenzionati a mantenerli. Ma fintantoché la complicità rimane sottotraccia, confinata alla controversa gestione dei tunnel sommersi, l’ambiguità della Fratellanza è un prezzo che gli israeliani sono disposti a pagare, dato che gestire la sicurezza del Sinai per Israele è impensabile. L’ambiguità di Morsi significa mantenere buoni rapporti con un organizzazione paramilitare il cui obiettivo è la distruzione dello Stato di Israele.Il dilemma di Morsi è tutto qui: da un lato deve gestire la sicurezza del Sinai dalle scorribande delle formazioni qaediste intenzionate a fare del Sinai un emirato islamista, una propaggine che per ragioni geo-strategiche può diventare un avamposto per lanciare attacchi ad Israele. Dall’altro deve gestire il credito di fiducia aperto da Israele stesso all’operato della propria intelligence.
Un rebus complicato che gli americani osservano interessati. L’IMF ha aperto una linea di credito a Morsi per scongiurare un bailout dei Fratelli Musulmani. La rimozione del generale Mohamed Tantawi, accusato da Morsi di negligenza proprio per l’attentato in Sinai, è un segnale di discontinuità che a Washington non è sfuggito.Il sospetto è che Morsi voglia usare i disordini in Sinai come pretesto per regolare i conti con i salafiti in una partita che sta già incendiando il Medio Oriente. Un sospetto che nell’orizzonte strategico di Ehud Barak assume i connotati di una certa urgenza. “il rischio di una esplosione di attentati su larga scala in Sinai esiste”, ha dichiarato Barak nel corso di una recente audizione alle commissioni Esteri e Difesa alla Knesset.Netanyahu ha confermato l’apertura di credito di Israele all’Egitto sulla gestione del Sinai, ma ha ribadito che per difendere la sicurezza dei cittadini di Israele, è Gerusalemme a dover contare solo su se stessa.In questa vertigine di alleanze in movimento il rischio è che il Sinai finisca risucchiato nel paradigma pachistano. Che si trasformi cioè in una zona instabile in cui uno Stato formalmente alleato degli Stati Uniti non riesce a gestire la sicurezza lasciando liberi i droni della CIA di monitorare (e colpire) le minacce. Mutatis mutandis la stessa situazione potrebbe riproporsi in Sinai. Qualche giorno dopo il raid di Sheik Zuweid, il generale egiziano Ahmed Bakr a capo della sicurezza del Nord del Sinai ha annunciato la cattura di sei terroristi. Tra di loro anche Selmi Salama Sweilam meglio noto col soprannome evocativo di “bin Laden”. Tre indizi fanno una prova, o no? 4 ottobre 2012, http://www.meridianionline.org/

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