martedì 16 ottobre 2012
La pazzia.
C’è stato un momento in cui, ai piani alti di Gerusalemme, più di
qualcuno – un anno fa – s’è chiesto se avesse senso quello scambio
appena concordato con il nemico: 1.027 carcerati palestinesi da liberare
in cambio di un soldato israeliano, ostaggio da più di cinque anni
nella Striscia di Gaza. Un giovane che, per le sue condizioni di
detenzione, poteva aver perso la testa. E chissà cos’altro.Un anno dopo
quell’elemento viene a galla. Ma stavolta a parlarne è il diretto
interessato: Gilad Shalit. Il protagonista del più drammatico – e
positivo – caso di rapimento sul suolo israeliano da parte dei miliziani
di Hamas s’è concesso.in una lunga intervista – la prima volta – per la
tv Channel 10 che verrà trasmessa i prossimi giorni.
Il soldato ha raccontato molti dettagli – anticipati in parte dal quotidiano Yedioth Ahronoth
– sulla sua prigionia. Ha detto, Gilad, che i militanti l’hanno
trattato sostanzialmente bene per la maggior parte del tempo. Ma ha
anche rivelato di quando, a un certo punto, ha iniziato a pensare che
non sarebbe mai stato liberato. «Pensavo di fare la fine di Ron Arad, il
pilota abbattuto nel 1986 con il suo jet in Libano e non ancora tornato
a casa», dice il giovane 26enne. Ma «cercavo anche di essere ottimista,
mi concentravo sulle piccole, belle cose che avevo lì davanti a me».I militanti,
svela Gilad nell’intervista, giocavano con lui a scacchi e domino. «Mi
permettevano anche di guardare le notizie sulla tv araba. È così che ho
imparato anche un po’ la loro lingua». Poi dice che gli è stato data
anche una radiolina. «Così potevo sentire quello che succedeva a casa
mia e in ebraico».«Spesso ho
anche riso insieme ai miei rapitori», continua il soldato. «Soprattutto
quando guardavamo un film o una partita di calcio». «Una volta i
miliziani sono rimasti letteralmente a bocca aperta quando un
israeliano, Eran Zahavi, ha fatto gol nella partita di Champions League
Hapoel Tel Aviv – O. Lione. Non potevano credere che una squadra
israeliana potesse giocare in quel modo. Fu una delle cose che mi
aiutarono a restare sano di mente».Un’altra
cosa che, dice, l’avrebbe aiutato a non impazzire sarebbe stato anche il
suo Paese. «Ho fatto spesso schizzi sulla mia città, per non
dimenticarla. Anche se ho cercato sempre di nascondere quei disegni per
non indispettirli». Perché la prigionia è sempre prigionia. E tempo – e
modo – di tenere un diario, di quelli buoni per farci poi un libro e un
film e una serie televisiva, ecco, tempo – e modo – per quello proprio
non c’era. L’unica cosa che resta, ancora, un mistero è il posto in cui è
stato rinchiuso.«All’inizio –
ha ricordato Gilad – è stato difficile, ma poi ho sviluppato una sorta
di routine giornaliera: mi svegliavo e andavo a dormire praticamente
alle stesse ore». Così, per 1.941 giorni di fila. Fino a quando non ha
toccato il suolo israeliano. Fino a quando non ha abbracciato papà e
mamma, i fratelli, i nonni, gli amici. Fino a quando non ha messo piede a
casa sua, a Mitzpe Hila, nell’Alta Galilea. Fino a quando non s’è
addormentato nel suo letto, in quella camera – la sua – che mamma Aviva
aveva lasciata intatta perché, ne era convinta, «il mio Gilad prima o
poi tornerà».http://falafelcafe.wordpress.com/
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