martedì 16 ottobre 2012
Gianfranco Maris Mondadori Euro
17,50
Cosa
unisce Alberto Sed, romano, classe 1928 e Gianfranco Maris, milanese,
classe 1921? Quale fil rouge congiunge l’esistenza di questi due
uomini ormai anziani che hanno attraversato gli anni della Seconda
Guerra mondiale e le cui drammatiche vicende giungono a noi
attraverso le pagine di un libro?Alberto
Sed e Gianfranco Maris, l’uno ebreo, l’altro partigiano, hanno
conosciuto l’orrore dei campi di sterminio nazisti, si sono
confrontati con il “Male assoluto”, hanno lottato per non
lasciarsi annientare, per difendere la propria dignità, per
conservare il rispetto di se stessi, per tendere la mano al compagno
in un gesto di solidarietà. Il tutto vissuto ogni giorno in una
continua battaglia per restare “uomini” nella consapevolezza che
vivere era un modo per ribellarsi al destino di annientamento
costruito dalle SS.Se
la storia di Alberto Sed ci è stata raccontata in pagine di forte
impatto emotivo da Roberto Riccardi nel libro “Sono stato un
numero” edito da Giuntina e recensito in questa rubrica, Gianfranco
Maris narra con lucidità e passione in un’opera che è soprattutto
un atto di fede nell’uomo, i tragici eventi che lo portano nel
campo di concentramento di Mathausen-Gusen.Per
entrambi, ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio, testimoniare è
espressione di un dovere civile, di un bisogno impellente affinché
l’oblio non cancelli quello che è stato e le esperienze vissute e
raccontate da coloro che “sono tornati” diventino un patrimonio
prezioso per le nuove generazioni.Gianfranco
Maris, noto avvocato penalista è stato membro del Consiglio
Superiore della Magistratura dal 1972 al 1976 e ora è Presidente
dell’Associazione Nazionale ex Deportati Politici e della
Fondazione milanese, da lui stesso creata, “Memoria e
Deportazione”. Il percorso politico che conduce Maris al campo di
concentramento di Mathausen è descritto con lucidità e rigore
storico nei primi capitoli del libro.Figlio
di un fonditore di ghisa assiste nel novembre del 1924, all’età di
tre anni, ad un grave episodio di violenza da parte di un gruppo di
squadristi in camicia nera che cercano il padre, iscritto a un gruppo
di Italia Libera; rifugiatosi in questura con la moglie e i figli
riesce a salvarsi ma da quel momento diventa difficile per lui
trovare un lavoro.E’
un adolescente Maris quando si confronta ancora una volta con la
violenza di alcuni militi fascisti in divisa che si avventano contro
un vecchio ubriaco reo di aver profanato, orinando contro il muro,
l’edificio del gruppo rionale fascista ed infine, incredulo,
assiste all’allontanamento di un docente ebreo dal liceo classico
che frequenta. Un episodio che lo porta ad un rifiuto totale del
fascismo e dunque “…diventare comunisti, per molti di noi, fu una
scelta di dignità, di libertà culturale, di giustizia”.“Il
volto disumano e irragionevole della guerra” si rivela a Gianfranco
Maris nell’agosto 1941 quando a Forlì nella caserma dell’11°
reggimento di fanteria della divisione Casale, è mobilitato per la
Grecia. Poi è la volta della Slovenia e della Croazia. Maris diventa
ufficiale e si trova a comandare uomini che hanno anche dieci anni
più di lui, spesso analfabeti, povera gente mandata a morire a
migliaia di chilometri da casa senza sapere perché e di cui
raccoglie le confidenze aiutandoli a scrivere lettere alle famiglie.
Alla caduta del fascismo non abbandona nessun soldato e nel caos in
cui si viene a trovare l’esercito dopo l’8 settembre 1943 tutti
insieme decidono di tornare a piedi in Italia.A
Milano Maris mette la sua esperienza di guerra e la sua appartenenza
al Pci dal 1938 al 1940, prima della partenza per la Slovenia, al
servizio della Resistenza. Sotto la falsa identità di Gianfranco
Lanati si reca in Val Brembana, organizza una brigata in Val
Taleggio poi è destinato in Valtellina. Ma un partigiano arrestato
lo denuncia e insieme al compagno Abele Saba viene arrestato dalle
SS. Lo attende il carcere a Bergamo e a San Vittore, le botte, gli
interrogatori, le torture, la paura di essere fucilato. Il 27 aprile
1944 è avviato al campo di concentramento di Fossoli, “un campo
senza pietà, non solo di transito verso altri campi di morte, ma
esso stesso struttura funzionale e funzionante di annientamento”.
Il giovane Maris lascerà Fossoli per essere trasferito prima nel
campo di Bolzano e successivamente il 5 agosto 1944 su un carro
bestiame arriverà al lager di Mathausen.Come
Alberto Sed ad Auschwitz anche Maris riceve l’accoglienza di
soldati che picchiano con bastoni e di cani che ringhiano oltre alle
urla nelle orecchie “Schnell, schnell” (Presto! Presto!).L’autore
rimane a Mathausen-Gusen 265 giorni (“Non so se e quanto avrei
potuto ancora resistere”) trascorsi in un disperato tentativo di
sopravvivere alle violenze, alla fame, al freddo, al duro lavoro
nella cava di Gusen, alla dissenteria. Essere idonei al lavoro –
ricorda l’autore – è condizione indispensabile per non finire
nelle camere a gas o uccisi con un’iniezione di benzina nel cuore.
E’ straziante il racconto delle venticinque bastonate prese per
colpa di cinque pidocchi che il kapo’ trova nei miseri stracci che
indossa, lasciati poi a disinfestarsi tutta notte nel gelo della
neve. Alla mattina Maris non può far altro che indossare quegli
abiti induriti e inzuppati.Trasformare
i prigionieri in schiavi perfetti, annientarli sotto il profilo
morale, spegnere la loro individualità e dignità è il primo
obiettivo degli aguzzini nazisti cui l’autore si oppone
strenuamente giorno dopo giorno.L’occasione
di trasportare grossi massi di granito su una barella con un compagno
come Nicola Cuneo, professore di storia e filosofia, è per il
giovane Maris “un assoluto privilegio perché quest’uomo è una
fonte di cultura inesauribile…che fa di lui un combattente
invincibile. Ogni percorso con Cuneo è una lezione…”siamo nella
cava di Gusen ma è come se fossimo nell’emiciclo di
un’università”.Ammazzare
lo spirito, abbruttire l’individuo, mettere un prigioniero contro
l’altro è anche un modo adottato dagli aguzzini per spegnere
qualsiasi solidarietà fra gli esseri umani. E a questo tentativo
Maris, nonostante le sofferenze fisiche e morali, si oppone con
fierezza: non cede mai alla tentazione di “organizzarsi” come
vorrebbero i nazisti, rubando ad esempio un pezzo di pane ad un
compagno o qualsiasi altro oggetto, un cucchiaio, gli zoccoli che nel
campo rappresentano la sopravvivenza. Maris non “si organizza”
perché non vuole che i criminali vincano, non vuole piegarsi a
questa legge del campo. Interviene duramente anche con i compagni che
si abbandonano a gesti di servilismo, come raccogliere la cicca di
una sigaretta gettata a terra da uno degli aguzzini. Non è mancanza
di misericordia racconta l’autore ma “..la prima misericordia
qui, forse la sola possibile misericordia, è spronare ciascuno di
noi a non rinunciare alla propria dignità e a restare uomo”.“E’
il mio cuore il paese più straziato” scrive Giuseppe Ungaretti
sull’Isonzo durante la Prima guerra mondiale, un verso poetico che
torna alla mente di Maris il 5 maggio 1945 all’arrivo delle truppe
alleate: dinanzi all’esplosione di gioia dei suoi compagni il
giovane antifascista non riesce ad abbandonarsi alla felicità perché
il suo pensiero è rivolto a tutti i compagni che non ce l’hanno
fatta. “Avevo ventiquattro anni e avevo già visto tutto l’orrore
del mondo”.Da
allora Gianfranco Maris considera un dovere trasmettere la sua
testimonianza ai giovani per far conoscere, attraverso le parole di
chi l’ha vissuta, la Storia di anni in cui l’umanità è
sprofondata in un baratro di orrori perché “Ciò che è accaduto
può ancora succedere, perché ciò che accadde fu opera di uomini
come noi” (Primo Levi).Dinanzi
a episodi di negazionismo e all’incredulità che ancora pervade la
mente di molti la lezione che ci trasmette uno fra gli ultimi
sopravvissuti ai campi di sterminio è chiara e non ammette
tentennamenti: “…..noi dobbiamo mantenere la memoria. La
conoscenza della Storia è la prima condizione per la libertà”.Giorgia
Greco
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