giovedì 29 novembre 2012
Arafat riesumato. L'ultimo spettacolo Muqata
RAMALLAH (Cisgiordania) — Aprono la tomba
all'alba, quando Ramallah e le coscienze dormono ancora. Le strade che
portano alla Muqata, il palazzo presidenziale dov'è sepolto Yasser
Arafat, sono chiuse da due giorni. Polizia dappertutto: la tv
palestinese è l'unico occhio ammesso ad assistere; un medico
palestinese, l'unica mano autorizzata a toccare; l'inquirente
palestinese, l'unica voce abilitata a parlare. Il sudario sono grandi
teli di plastica nera e blu. Non c'è bisogno di levare la salma dal
mausoleo, «lo stato del corpo era come ci si poteva aspettare»: alcuni
frammenti d'osso presi dalla coscia, «nessuno straniero ha messo le mani
sul Padre della Palestina». Il prelievo è portato nella moschea di
fianco alla Muqata, venti campioni sono distribuiti agli esperti
svizzeri, francesi e russi che li esamineranno nei loro laboratori. Tre
ore e mezza per richiudere tutto, posare qualche fiore, verbalizzare coi
tre giudici parigini che indagano su richiesta della vedova Suha, per
aprire un'inchiesta che, almeno qui, sa già dove puntare:
«L'accertamento sulle cause della morte di Arafat non si fermerà —
avverte Tawfiq Tirawi, capo della commissione palestinese — e se non
troveranno il polonio, chiederemo di cercare altri veleni. Chi l'ha
assassinato, la pagherà». Ci volle meno a seppellirlo, otto anni fa,
di quanto ci vorrà a sapere perché l'hanno dissepolto. «Non avremo i
risultati prima di marzo», prevedono dall'università di Losanna. Molte
le perplessità: otto anni sono tanti, per rivedere tracce di polonio
come quelle scoperte a luglio sulla kefiah e sullo spazzolino. Anche la
degenza parigina fu troppo breve, per parlare con certezza
d'intossicazione radioattiva. E poi il leader palestinese non perse un
capello, come invece accadde alla più famosa vittima di quel veleno, la
spia russa Litvinenko. «Una sceneggiata», liquida il governo israeliano,
principale sospettato dai palestinesi: «Perché la vedova s'oppose
all'autopsia? Perché Ramallah non ha mai reso pubbliche le cartelle
cliniche dell'epoca?». Polonio o no, Arafat serve da morto più ancora
che da vivo: il suo successore, Abu Mazen, domani perorerà all'Onu
l'ammissione della Palestina come Stato osservatore e, se la spunterà,
potrà portare il giallo del veleno alla Tribunale dell'Aja, chiedendo
un'inchiesta internazionale. Alle Nazioni Unite s'allarga il fronte del
sì, la Francia conferma che riconoscerà lo status palestinese: «Lo
spirito di Arafat — dice Abu Mazen — è uscito dalla tomba per sostenerci
nella nostra marcia sull'Onu». A molti, dal nipote alla vecchia
sorella di Yasser, l'intifada della salma piace ancor meno di quella
diplomatica. «Non serve a niente — dice al Corriere la
scrittrice palestinese Suad Amiry, l'autrice di «Sharon e mia suocera»
—. Se pure si scopre che l'hanno avvelenato, dove si trovano le prove su
chi è stato? Si può sospettare di chiunque, quindi non s'accuserà
nessuno. E' solo un gioco politico. Arafat poteva piacere o no, ma era
il rivoluzionario rispettato da tutti. Più che il polonio, lo uccise chi
cancellò la soluzione dei due Stati. Gl'israeliani, che ormai negoziano
solo le tregue. Ma anche Abu Mazen: uno che ha rinunciato a tornare
perfino nella sua città natale, perché allo Stato palestinese non crede
più». Francesco Battistini CORRIERE della SERA 28/11/2012
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