lunedì 5 novembre 2012
Benjamin Netanyahu nei giorni scorsi è stato a Parigi per la
commemorazione delle vittime della strage di Tolosa di un anno fa. Sarà
stata una coincidenza, ma proprio in quei giorni (il 2 novembre, per la
precisione) “Le Monde” è uscito con un editoriale molto duro, quasi un
atto di accusa nei confronti dell’Europa, a suo dire troppo morbida e
condiscendente con Israele e la politica degli insediamenti. Una
condiscendenza che, secondo il quotidiano francese si esprime non tanto
nelle dichiarazioni, ma nei fatti. In che modo? Importando grandi
quantità di prodotti agricoli e industriali provenienti dagli
insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Questo almeno è
quanto sostiene il recente rapporto stilato da una commissione di 22
associazioni intergovernamentali europee, le cui conclusioni sono
riportate, appunto, nell’editoriale di due giorni fa.Questo sostegno dell’UE a Israele, secondo il rapporto (e “Le
Monde”), rappresenta l’abbandono da parte dell’Europa dei principi
espressi nel 1980 a Venezia con la Dichiarazione comune sul Medio
Oriente – una delle prime prese di posizione della Comunità Europea in
tema di politica estera.Quel documento – che “Le Monde” oggi definisce “coraggioso e
visionario” (usando le stesse parole di un articolo del NYT di due anni
fa), e che all’epoca il primo ministro israeliano Menachem Begin, bollò
come l’anticamera di una nuova Monaco - ammetteva l’OLP al tavolo dei
negoziati di pace, riconosceva ai palestinesi il diritto
all’autodeterminazione, e definiva gli insediamenti “un serio ostacolo
alle trattative di pace”. Ed è proprio quest’ultimo il punto su cui “Le
Monde”, riportando le conclusioni del rapporto europeo, indirettamente
attacca Bruxelles accusandola di essersi arresa ad Israele. L’editoriale
riporta infatti quella parte del rapporto in cui, secondo la linea
ufficiale di Bruxelles, gli insediamenti israeliani vengono definiti “illegali rispetto al diritto internazionale”, “un ostacolo all’instaurazione della pace”; e tali da rischiare di “di rendere impossibile una soluzione fondata sulla coesistenza di due stati“.Ma, commenta “Le Monde”, sono tutte “parole vane”: i dati del rapporto
europeo dicono che “l’Europa partecipa di fatto allo sviluppo degli
insediamenti israeliani in Cisgiordania. Essa facilita il controllo di
circa il 40% di questo territorio da parte di Israele. Essa è complice
del rafforzamento continuo della presenza israeliana che impedisce la
ripresa di un negoziato serio tra le due parti”.L’editoriale si chiude con un commento: “L’Europa appoggia questo
pericoloso fenomeno che è la banalizzazione completa del movimento di
colonizzazione in atto. Esso non suscita altro che condanne formali da
parte dell’Europa e degli USA; come se avessimo sepolto la speranza di
uno stato palestinese”.Secondo il quotidiano diretto da Erik Izraelewicz, dunque, la
responsabilità dello stallo dei negoziati e il dissolversi stesso della
speranza di veder nascere uno Stato palestinese, è di Israele e con esso
dell’Europa, che con la sua politica economica sostiene di fatto la
politica israeliana degli insediamenti. Tirando le somme, qualcuno
potrebbe anche leggere questo commento come un velato appello all’Europa
per il boicottaggio economico di Israele…All’editoriale di “Le Monde”, si contrapponeva, sempre il 2 novembre,
un breve articolo del “Wall Street Journal”. Anche questo come il
primo, privo di firma; il tema invece era diverso: riguardava Israele
bersaglio pressocchè quotidiano dei razzi lanciati da Gaza: “Lunedì i
terroristi palestinesi che operano nella Striscia di Gaza hanno sparato
21 razzi e colpi di mortaio su Israele. Che sono seguiti alla raffica di
77 granate della settimana scorsa, in cui sono rimasti in cui
gravemente feriti due civili, mentre migliaia di persone sono state
costrette a ripararsi nei rifugi antiaerei. Dall’inizio del 2012 sono
stati sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele più di 800 razzi e
colpi di mortaio”.Leggendo questo articolo insieme all’editoriale di “Le Monde”, si ha
una visione se non altro più completa della situazione. Se da una parte
c’è chi vorrebbe un’Europa più dura con Israele, che imponesse lo stop e
il ritiro dei coloni dagli insediamenti nei territori palestinesi - conditio sine qua non
per la ripresa dei negoziati di pace; dall’altra parte, si ricorda che
quasi ogni giorno Israele vede piovere sul proprio territorio decine di
razzi lanciati da Gaza, senza che nessuno ci presti più
nemmeno attenzione. “Se questi attacchi fossero lanciati dal Messico
verso il Texas, o dal Nord Africa verso il sud della Spagna, la storia
sarebbe ben diversa” si legge sul “Wall Street Journal” che prosegue
osservando anche che “il mondo è ossessionato da un possibile attacco
israeliano alle strutture nucleari iraniane e non si accorge che l’Iran,
in quanto principale fornitore di armi ai palestinesi di Gaza, di fatto
ha già cominciato la sua guerra contro Israele”.Se ogni tanto non ci fosse qualche intervento come questo del Wall
Street Journal, in effetti, difficilmente in Europa ci ricorderemmo che
l’ostacolo alla ripresa dei negoziati di pace dipende non solo dagli
insediamenti israeliani, ma anche dalle azioni terroristiche dei
palestinesi di Hamas. Insomma gli estremisti che impediscono le
trattative diplomatiche, stanno da entrambe le parti, ma i grandi
giornali, in Europa, sembrano fare a gara per farcelo dimenticare.Ma perchè, viene da chiedersi, i giornali europei propongono sempre
(o quasi) una visione unilaterale delle cose quando si tratta di
Israele? Perchè l’opinione pubblica in Europa è così schiacciata su un
unico e solo fronte?L’Europa ha vissuto per Israele una grande stagione d’amore dagli
anni ’50 fino a tutti gli anni ’60. Poi il rapporto si è deteriorato, si
è inasprito, fino ad arrivare a quello che oggi tutti conosciamo. Le
ragioni del grande amore, sono ovvie quanto quelle della rottura:
l’Europa pensava ad Israele come ad una sua costola nel Medio Oriente,
un frammento d’Europa fuori dell’Europa, diceva qualcuno. Proprio per
questa identità condivisa, la grande madre Europa si è sempre aspettata
da Israele un comportamento all’ “europea”, ovvero secondo quei codici e
quel “linguaggio” che l’Europa unita aveva messo a punto nel dopoguerra
e che avevano nella pace, nella democrazia e nel rispetto del diritto
internazionale, i loro cardini. Quando questi principi cominciarono ad
essere messi in discussione, cominciò il lento allontanamento l’una
dall’altro.Lungo tutti gli anni ’50 fino agli inizi degli anni ’70 Israele
godette in Europa di un appoggio e di una simpatia pressocchè
incondizionate, anche all’interno della Comunità europea. Certo non
mancavano i problemi, ma basta rileggersi qualche dibattito del
Parlamento europeo degli anni ’60 e ’70 per rendersi conto dell’immagine
quasi favolosa che l’Europa si era costruita di Israele.Il 1967, con la Guerra dei Sei Giorni e il successivo rifiuto di Israele
di ritirarsi dai territori occupati – come chiesto dalla risoluzione
242 dell’ONU – incrinarono un poco questa visione, ma senza
comprometterla del tutto. Fu soprattutto con gli anni ’80 e via via nei
decenni successivi che in Europa cambiò decisamente l’immagine e la
considerazione di Israele (e la guerra del Libano del 1982, vi contribuì
non poco): quando cioè, ormai, il mito del kibbutz e della
socialdemocrazia erano sulla via del tramonto, il cambio generazionale
in atto, il contesto internazionale ormai mutato rispetto agli anni del
dopoguerra… Era come se lentamente Israele si fosse “estraniato”
dall’Europa. O così, almeno, appariva a quelli di Bruxelles e
Strasburgo.Oggi questa sensazione di “estraneità” sembra permanere. E non importa
se fra Europa e Israele ci sono fior di accordi che tengono unite le due
sponde del Mediterraneo tenere – economici, di cooperazione
scientifica, culturale, sportiva. L’opinione pubblica rimane e anzi
diventa ogni giorno di più ostile e intollerante e insofferente verso
Israele come forse verso nessun altro paese al mondo. E i giornali, i
media, questa insofferenza non solo la riflettono, ma la amplificano
(del resto, giusto per fare un esempio dei nostri giorni, non è forse
vero che la guerra civile in Siria, che miete vittime fra i civili ogni
ora, non crea nell’opinione pubblica più attenta e sensibile alle
questione dei diritti umani, la stessa attenzione e indignazione e
condanna, che suscita la condizione dei palestinesi a Gaza?).Qualche giorno fa un amico giornalista faceva notare come tutta la
questione di Israele e del conflitto con i palestinesi, stia prendendo
la forma quasi di un’ “ossessione”, di un tema di cui si tratta sempre
meno con la ragione, e sempre di più con la “pancia”. E’ una diagnosi
possibile; quanto alle cause, però, la discussione è terribilmente
aperta.
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