giovedì 8 novembre 2012
A conclusione della lunga
campagna presidenziale statunitense, credo che sia doveroso,
innanzitutto, rivolgere un plauso all’efficienza del sistema
istituzionale americano, che, a distanza di quasi due secoli e mezzo,
dimostra ancora invidiabili doti di solidità e funzionalità, e una non
comune capacità di sollecitare, su larga scala, passione civile e
partecipazione democratica. Per la natura stessa del sistema elettorale
americano, fortemente caratterizzato in senso personalistico e
bipolare, è inevitabile che la competizione sia seguita, tanto negli
Stati Uniti quanto nel resto del mondo, soprattutto nella forma di un
esplicito ‘tifo’ a favore o contro l’uno o l’altro dei candidati. Anche
coloro, fra i cittadini americani, che hanno preferito non recarsi a
votare, hanno comunque avuto, tra i due competitori, una chiara
preferenza, o una prevalente antipatia. Ma la vera vincitrice, in
queste elezioni, come in tutte le altre precedenti, è stata la
democrazia americana, che esige che il potere sia periodicamente
sottoposto a una stringente ed estenuante ‘prova del fuoco’, attraverso
la quale ogni gesto, ogni parola, ogni proposito di chi si candidi a
governare, nell’interesse comune, viene passato al microscopio da
un’opinione pubblica severa ed esigente, che non fa sconti a nessuno, e
non ama essere presa in giro. Fra i vari temi che sono stati al centro della campagna, il sostegno a
Israele è apparso sostanzialmente confermato da parte di entrambi gli
schieramenti, e ciò rappresenta, indubbiamente, dal nostro punto di
vista, un elemento positivo. Certo, il modo in cui tale solidarietà è
stata riaffermata è stato piuttosto diverso tra Romney e Obama: più
marcato, deciso ed esplicito da parte del primo, più articolato,
mediato e prudente nelle parole del secondo. Perciò – pur perfettamente
consapevole del fatto che, in politica come nella vita, non sempre
l’amicizia più ‘esibita’ e ‘sbandierata’ è sicuramente la più forte e
sincera – mi sono augurato la vittoria del candidato repubblicano,
sulla base della speranza che la diffusa ostilità contro lo Stato
ebraico potesse essere, almeno in parte, arginata e contrastata – e non
solo a parole - , più efficacemente di quanto non sia stato fatto
finora. Ma ho trovato un po’ ingenerose alcune critiche rivolte, su
questo punto, a Obama, che è interprete di quella larga fascia di
elettorato americano che sostiene Israele, ma non considera la sua
difesa una priorità assoluta, non, comunque, una ‘mission’
completamente coincidente con la tutela degli interessi dell’America.
Certo, sarebbe piaciuto che il Presidente, in questi quattro anni,
avesse manifestato con più vigore la sua vicinanza al piccolo alleato,
ma bisogna prendere atto che molti americani, anche in ragione della
crisi economica, seguono oggi le vicende del Medio Oriente con un
crescente distacco, e non sempre considerano Israele una sorta di
prezioso ‘avamposto’ dell’Occidente. Può dispiacere, ma è così. Se si
fosse votato in Europa, ovviamente, Obama avrebbe trionfato col 90 %
dei voti. E ancor più in Italia, dove un ipotetico candidato
esplicitamente pro-Palestina avrebbe scaldato molti cuori. Avevamo
sperato che l’esito delle elezioni potesse un po’ attutire il pesante
senso di solitudine che grava su Israele. Non è andata così, ma non è
detto che una vittoria di Romney avrebbe determinato un capovolgimento
radicale della situazione. Non è un giorno triste per gli amici
d’Israele. Magari un giorno di preoccupazione, come tutti gli altri. Comunque, se le campagne elettorali dividono, le elezioni uniscono, e
il popolo americano si ritroverà, oggi, unito sotto la guida del
‘Comandante in capo’ scelto dal popolo sovrano. E, secondo la migliore
tradizione americana, questi sarà chiamato a interpretare il complesso
dei sentimenti, degli umori, delle speranze e delle paure espressi
dalla generalità dei cittadini, e non solo da quella metà che gli ha
espresso fiducia con il proprio voto. E sarà chiamato, soprattutto, a
difendere – e non solo nel perimetro dei confini geografici degli Stati
Uniti - i valori fondanti della democrazia americana: tanto simili a
quelli della democrazia israeliana, come efficacemente attestato da
diverse eloquenti analogie tra la Dichiarazione d’Indipendenza degli
Sati Uniti e quella d’Israele. Confidiamo che il Presidente Obama
sappia farlo.Francesco
Lucrezi, storico,http://www.moked.it/
Etichette:
Abbiamo scelto.....
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento