lunedì 26 novembre 2012
Tra cinismo e calcoli
d’interesse
È
troppo presto per fare dei bilanci, così come anche delle
precipitose valutazioni, sull’insieme degli elementi che si
accompagnano al confronto tra Israele e Hamas, che ha conosciuto una
recrudescenza violentissima nelle due settimane appena trascorse.
Ancora non sappiamo se la cosiddetta “tregua” reggerà alla prova
dei fatti, dopo lo svolgimento dell’operazione «pilastro di
sicurezza». Non sorprenderebbe, quindi, se si dovessero registrare
nuovi sviluppi sul campo, anche a breve. L’attività di
provocazione del movimento islamista è ben lontana dall’essersi
esaurita, se non altro perché la sua stessa ragion d’essere riposa
nella guerra perpetua ad Israele. Difficile immaginare, a meno che
non avvenga una sorta di improbabile rivoluzione copernicana, uno
scenario dove i suoi militanti depongano l’ascia di guerra. Alla
natura propria di Hamas, che è per così dire vecchia storia, si
legano poi due altre cose, che congiurano a favore della prosecuzione
delle ostilità: il movimento islamista, egemone nella Striscia di
Gaza dopo averla epurata della presenza di Fatah, deve costantemente
puntellare il suo potere dinanzi ad una società civile che gli ha
offerto il suo consenso ma che adesso chiede contropartite in termini
di risorse e benefici; inoltre, esso sconta la concorrenza, sempre
più forte, che i movimenti di osservanza salafita e qaedista gli
stanno facendo, nel tentativo di strappargli lo scettro, per poi
instaurare un fantasmagorico “emirato di Gaza”. Hamas non ha
vinto nulla in questo round bellico ma ha cercato di ottenere qualche
risultato simbolico, di cui aveva disperatamente bisogno, per
dimostrare che il suo potenziale offensivo, e la sua volontà di
usarlo contro Israele, sono intatti. Da ciò il ricorso all’uso di
missili di media gittata, rivolti contro Tel Aviv e Gerusalemme, così
come il tentativo di riprendere le azioni terroristiche in territorio
israeliano, malgrado le innumerevoli difficoltà che gli aspiranti
“martiri” per fortuna incontrano. L’esplosione sul mezzo
pubblico che ha causato ventitré feriti è il primo atto di tal
genere che si registra dal 2006, dopo che l’uscita delle Forze di
difesa israeliane da Gaza e la perimetrazione della Cisgiordania,
attraverso la barriera di protezione, avevano concorso attivamente a
ridurre l’impatto di quelle aggressioni contro i civili. Al di là
dell’offesa nei confronti delle vittime, questi eventi non mutano
alcunché sul piano del bilancio strategico ma intendono mandare un
segnale preciso, ossia che per Hamas la lotta proseguirà fino a che
l’odiata «entità sionista» non scomparirà. Per gli uomini del
movimento radicale l’alternativa è altrimenti secca, trattandosi
di scomparire essi stessi o, comunque, di perdere qualsiasi
credibilità nei confronti di quei palestinesi di Gaza (quanto siano,
al momento, non è dato saperlo) che continuano a sostenerli. Dopo di
che la recrudescenza delle violenze si inquadra anche in fattori di
lungo periodo e in una logica che va al di là del rapporto
antagonistico con Israele. Il primo elemento da rilevare è la
perdurante scissione in due della rappresentanza politica
palestinese. Parrebbe un riscontro ovvio ma la diarchia tra ciò che
resta dell’Autorità nazionale palestinese, insediatasi a Ramallah
e guidata dagli screditati eredi di Arafat, da una parte, e i
radicali di Mahmud Abbas, oramai ben ramificati nei trecentosessanta
chilometri quadrati della Striscia di Gaza, è l’orizzonte della
politica araba in quelle che dovrebbero costituire le terre del
futuro “Stato di Palestina”. Il divario è incolmabile e,
malgrado i tentativi di mediazione intrapresi negli anni passati
dagli Stati limitrofi, a partire dall’Egitto, indietro non si
tornerà. Non c’è in corso solo una guerra di Hamas contro Israele
ma anche dell’islamismo contro al-Fatah nonché l’iconica e
senescente Organizzazione per la liberazione della Palestina. La
posta in gioco è il controllo della Cisgiordania e, di riflesso,
l’influenza su parte della componente palestinese della Giordania.
Non è un caso, tra l’altro, se Abu Mazen e i suoi uomini non si
siano fatti sentire durante queste settimane, al contempo ripiegati
sui problemi di casa propria e solleciti nell’osservare, con un
qualche compiacimento, le difficoltà del parente-antagonista. Un
altro fattore da considerare è la parabola discendente della
«primavera araba». Si tratta di un fenomeno nato perlopiù come
insieme di movimenti spontanei di base, rivolti a chiedere una
maggiore equità sociale a Stati dove le diseguaglianze sono e
rimangono moneta corrente, insieme ad una qualche libertà in regimi
rigorosamente oppressivi, e che si trova adesso a registrare i
cascami dell’impotenza. Sia pure con andamenti altalenanti e
risultati eterogenei, perlopiù conclusisi con l’estromissione o
l’eliminazione fisica degli esponenti più compromessi delle
vecchie leadership, i tumulti non hanno prodotto nessun reale effetto
di liberalizzazione. Purtroppo era una cosa facile da prevedere già
a suo tempo, non solo per il pervicace controllo che alcuni gruppi
ristretti continuano ad esercitare sui processi decisionali nei paesi
dell’area mediterranea e mediorientale ma anche per la marginalità
che questi ultimi registrano rispetto al mercato internazionale del
lavoro. Nell’insoddisfazione crescente si aprono così fenditure
per l’intromissione in campo politico dell’islamismo militante,
che si propone come alternativa ai mali della società. In verità
più che intorno ad Israele il vero fuoco del confronto geopolitico
ruota sull’Africa subsahariana e centrale, quella lunghissima area
di terre che parte dalla Mauritania e arriva a ciò che resta della
Somalia. È lì che si stanno svolgendo una pluralità di guerre,
poco o nulla raccontate dai media italiani e occidentali, poiché dal
controllo di quei territori – e delle risorse che si trovano in
esse – deriveranno molte delle egemonie regionali e continentali
nei tempi a venire. Basti pensare che si ha a che fare con Stati in
forte crescita demografica, dove la cospicua presenza cristiana è
sempre di più contrastata e nei quali la Cina ha fatto o sta facendo
forti investimenti, nel tentativo di aggiudicarsi un ruolo di
monopolista, o comunque di soggetto privilegiato, nel controllo delle
materie prime. Ha i mezzi materiali e finanziari per cercare di
raggiungere questo obiettivo e si sta comportando di conseguenza,
contando anche sulle difficoltà, che a volte si traducono in un vero
e proprio vuoto, della politica americana, la vera assente nelle
vicende di queste ultime settimane. È infatti questo un terzo
elemento da considerare e che rimanda al declino dell’egemonia
statunitense in diverse aree del globo. Argomento, quest’ultimo,
complesso da analizzare e da motivare ma che si riconduce, per più
aspetti, all’insostenibile posizione debitoria di Washington
(ovvero, delle famiglie americane) e al bisogno di disimpegnarsi dai
troppi teatri di confronto. Da tempo Hamas ragiona, per parte sua, su
queste cose. Pur essendo un movimento di osservanza sunnita,
filiazione dei Fratelli musulmani egiziani, tuttavia, come ogni
organizzazione del radicalismo islamista, nel corso del tempo si è
dovuta ibridare per potersi consolidare. Lo scoglioso e rapsodico
rapporto con l’Iran sciita di Ahmadinejad, sia pure con aspetti e
una natura diversa da quello intrattenuto direttamente da Hezbollah,
è stato uno dei pilastri della sua ascesa politica. Gli effetti
delle sollevazioni popolari di questi due anni hanno sconvolto
l’intero quadro regionale. Il vero nodo critico, per Hamas, come
per altri soggetti presenti sul proscenio, è il destino della Siria.
Che il clan Assad sia destinato prima o poi a cadere è fatto
risaputo e anche messo nel conto. Ma i tempi e le modalità hanno il
loro peso. Così come anche gli scenari a venire, essendo probabile
che il giorno in cui gli alawiti si trovassero defenestrati si
andrebbe verso una divisione di fatto del paese, non molto
diversamente da quanto è già avvenuto, o sta avvenendo, ne
condomini libico e in quello iracheno. Tuttavia è questa un’ipotesi
che tormenta i sonni della dirigenza iraniana, preoccupata di
trovarsi isolata, in mezzo a una regione controllata da uomini e
gruppi che fanno riferimento all’Arabia Saudita, al Qatar e alla
Turchia, tre tra i burattinai in queste circostanze. Teheran, in ciò
appoggiata da Mosca ma trattata con un occhio di riguardo anche da
Pechino (che deve tra l’altro gestire l’articolata presenza
musulmana nelle regioni meridionali del paese), da alcuni anni ha
quindi intrapreso una sorta di partnership con elementi radicali, ben
presenti nelle terre controllate da Hamas, per la fornitura di
materiale bellico. Si tratta di una triangolazione che lega l’Iran
al Sudan e quest’ultimo a Gaza, per il tramite della quale
componenti del materiale missilistico vengono portate a Khartoum e
dai lì, una volta assemblate, inviate a destinazione finale. I razzi
fatti in casa non hanno altrimenti la gittata dei Fajr 5, utili per
raggiungere obiettivi più ambiziosi della regione meridionale
d’Israele. Già tempo addietro Gerusalemme aveva proceduto a
colpire una colonna di mezzi di trasporto militare in Sudan, così
come il 23 ottobre scorso aveva bombardato la fabbrica Yarmuk,
proprio a Khartum. Quale sia lo stato dell’arsenale di questi
gruppi antagonisti ad Hamas, e dell’organizzazione islamista
stessa, allo stato attuale non è facile dirlo. Senza il contributo
iraniano e l’acquiescenza egiziana sarebbe probabilmente poca cosa.
Ma così come in parte si è ricostituito dopo l’operazione «Piombo
fuso», di tre anni fa, è plausibile che, qualora non dovessero
intervenire fattori nuovi, nonché inediti, quel potenziale possa di
nuovo sedimentarsi. Molto, se non tutto, dipenderà però dal destino
delle alleanze che andranno definendosi, quando il quadro regionale
sarà meno movimentato – e confuso – di quanto non si presenti
ora. Hamas sta senz’altro ragionando su quelli che devono essere i
suoi rapporti a venire con gli sciiti. Anche da ciò dipenderà
l’atteggiamento che assumerà verso Israele. Poiché quest’ultimo
è spesso una cinica variabile di circostanza rispetto alla
intelaiatura dei legami con il mondo arabo-musulmano. Più complessi
dell’intarsio di un tappeto persiano.Claudio
Vercelli http://www.moked.it/
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