lunedì 14 gennaio 2013
DoreGold
Cosa c’è dietro alla nuova retorica di Abu Mazen
Di Dore Gold http://www.israele.net/
Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha tenuto un comizio lo scorso 4 gennaio, in
occasione dell’anniversario dell’esordio di Fatah (più esattamente, del
48esimo anniversario del primo attacco terroristico di Fatah compiuto
contro Israele a partire dalla Cisgiordania, allora sotto occupazione
Giordana): un comizio che potrebbe aver segnato un punto di svolta nei
rapporti fra il presidente dell’Autorità Palestinese e lo stato
d’Israele.Facendo ricorso a una retorica estremista che da tempo non utilizzava,
Abu Mazen ha parlato della necessità che i palestinesi “rinnovino il
giuramento ai loro martiri ed eroi e seguano il loro esempio”. Nella sua
lista di “martiri” palestinesi non figurano soltanto recenti capi di
Hamas, come Ahmad Yassin, e della Jihad Islamica filo-iraniana, come
Fathi Shkaki, ma anche personaggi degli anni ’30, come Izzedin
al-Qassam, e soprattutto il famigerato mufti di Gerusalemme Hajj Amin
al-Husseini, quello che collaborò apertamente con i nazisti durante la
seconda guerra mondiale.Cosa succede ad Abu Mazen? Non è forse lui il leader che da vent'anni
viene indicato da politici e opinionisti israeliani come moderato e
interessato ad arrivare a un accordo di pace?Ciò che conta, qui, non è l’insulso dibattito su quanto Abu Mazen possa
ancora essere considerato un interlocutore per la pace. Conta piuttosto
capire il duro dato di fatto che sono molto cambiate le condizioni
complessive, influenzando le dichiarate intenzioni dei leader. Ciò che è
essenziale comprendere è che il clima politico del 2013 non somiglia
più a quello che pareva il Medio Oriente quando Israele iniziò a
trattare con le rappresentanze palestinesi nel 1993. Vi erano tre
condizioni strategiche molto specifiche, predominanti nel 1991, quando
venne originariamente lanciato il processo di pace degli ultimi due
decenni. Condizioni che oggi hanno subito sensazionali cambiamenti.Innanzitutto l’Unione Sovietica stava crollando, lasciando gli Stati
Uniti quale unica superpotenza dominante in Medio Oriente. Con le forze
armate americane dispiegate in tutta la regione dopo la vittoria degli
Usa nella prima guerra del golfo (1991: liberazione del Kuwait dall'Iraq
di Saddam Hussein), la supremazia della potenza americana non era
teorica, ma molto concreta.In secondo luogo, con la sconfitta di Saddam Hussein, non costituiva più
un fattore significativo, nei rapporti di forza mediorientali, il
membro più potente di quello che era noto allora come il “Fronte del
rifiuto”. I paesi arabi pragmatici pro-americani erano la vera forza
dominante nella regione.Terzo, l’Iran, che non si era ancora ripreso dagli otto anni di guerra
con l’Iraq del decennio precedente, non era in posizione tale da
sfruttare il collasso delle 40 divisioni dell’esercito iracheno per
affermarsi come la nuova potenza egemone.Queste tre condizioni posero le basi per la convocazione della
Conferenza di pace di Madrid (ottobre-novembre 1991) e successivamente
per la firma degli Accordi di Oslo (1993-95). Con tutta evidenza, oggi, nel 2013, quella straordinaria costellazione
internazionale non esiste più. Alla fine del 2011 i ricchi stati arabi
petroliferi, specialmente nel Golfo Persico, hanno temuto che il ritiro
degli americani dall'Iraq marcasse l’avvio di un nuovo periodo in cui
gli Stati Uniti avrebbero avuto molto meno a che fare militarmente con
la regione, e in cui non sarebbe più stato possibile affidarsi a loro
per la propria sicurezza. Il Qatar è di fatto saltato giù dalla nave
della protezione americana e si è riconciliato con Tehran già nel 2007,
quando l’amministrazione Bush pubblicò la sua National Intelligence
Estimate sull'Iran: una manovra che venne interpretata come il segnale
che Washington non intendeva dedicare risorse militari alla soluzione
del problema della corsa dell’Iran all'arma nucleare.Non basta. Con le rivolte nel mondo arabo, a partire dal 2010 è asceso
al potere un nuovo “fronte del rifiuto”, con i partiti islamisti che ora
governano dalla Tunisia all'Egitto. Hamas, che aveva già spodestato
l’Autorità Palestinese nella striscia di Gaza nel 2007, funge da filiale
della Fratellanza Musulmana palestinese e gode quindi di un vantaggio
intrinseco rispetto ad Abu Mazen, data la nuova mappa regionale che si
viene a delineare. Abu Mazen, che in passato vedeva nel presidente
egiziano Hosni Mubarak il suo alleato chiave, ora deve vedersela con un
governo dei Fratelli Musulmani al Cairo che ha lavorato a favore del suo
rivale islamista Hamas. Nelle capitali mediorientali è diventata
opinione diffusa che questo cambiamento sia avvenuto con l'approvazione
di Washington: certamente un’enorme esagerazione, e tuttavia una
percezione condivisa in tutta la regione L’Iran, infine, nonostante le perdite che subisce in Siria (e in
Libano), ha dimostrato un’accresciuta capacità di proiettare la sua
influenza, con armamenti, addestramento e in alcuni casi con
l’intervento di forze speciali, inserendosi in una quantità di conflitti
mediorientali: dall'Iraq allo Yemen, al Sudan, alla striscia di Gaza. E
il suo attivismo è verosimilmente destinato ad aumentare se dovesse
varcare la soglia nucleare.Israele non deve per forza tirare la conclusione che non esistono più
opzioni diplomatiche con i palestinesi e che lo stallo è inevitabile. Ma
per procedere in futuro con qualsiasi iniziativa deve innanzitutto
imprimere importanti cambiamenti al proprio approccio. In primo luogo,
il prossimo governo deve accettare che, dato ciò che sta avvenendo in
Medio Oriente, è del tutto irrealistico proporre negoziati con
l’obiettivo di arrivare presto a un vero e proprio accordo coi
palestinesi sullo status permanente e definitivo. In secondo luogo, alla
luce dei pericoli che si profilano all'orizzonte nella regione,
qualunque futura composizione politica deve prevedere una componente
sulla sicurezza molto più robusta di quanto si sia proposto in passato.È un peccato che, nel dibattito politico interno in Israele, politici e
opinionisti ripeschino dai cassetti vecchie idee diplomatiche che non
hanno funzionato, senza riconsiderare se siano ancora applicabili,
ammesso che lo siano mai state. Israele ha più che mai bisogno di
preservare la propria capacità di difendersi, da solo, indipendentemente
da quanto cambino le intenzioni proclamate dei suoi vicini.(Da: Israel HaYom, 11.1.13)
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