Israele, avanti tutta a destra
Una
vera e propria sferzata nazionalista. Il prossimo Parlamento
israeliano, quello che uscirà delle elezioni anticipate di martedì
prossimo, al di là della spartizione dei 120 seggi in palio, sarà
probabilmente guidato dai partiti di destra. E questo potrebbe
segnare un profondo cambiamento della politica nei confronti di Iran
e Autorità palestinese.Proprio
nel momento in cui l’Onu, con un voto senza precedenti, ha
riconosciuto l’Anp come Stato osservatore e sancito la leadership
di Abu Mazen, Israele si appresta a una ferma risposta nel segreto
dell’urna. I giochi non sono, comunque, ancora fatti. Se da una
parte è scontata la riconferma di Netanyahu alla guida del governo,
tutt’altro che chiara è la composizione del prossimo esecutivo.Secondo
i sondaggi, l’alleanza Likud-Yisrael Beitenou (di Netanyahu e
dell’ex ministro degli Esteri Lieberman, incriminato per frode e
abuso di ufficio) potrebbe ottenere 38 seggi, seguita dai laburisti
con 16. Terzo partito Habayit Hayehudi (Casa ebraica) dell’astro
nascente della destra, Naftali Bennet, indicato con 13 seggi. Seguono
gli ultraortodossi dello Shas con 12, il partito laico Yesh Atid con
8 e il nuovo partito Hatnua dell’ex ministro degli Esteri Tzipi
Livni con 7. A seguire gli ultraortodossi di Torah Unita nel
Giudaismo con 6 e i pacifisti di Meretz con 5. I tre partiti
arabo-israeliani dovrebbero conquistare in tutto 7 deputati, mentre
il partito di centro Kadima sembra destinato al crollo con soli 3
seggi. Secondo
gli analisti, il Likud-Beiteinu alleandosi con gli altri partiti di
destra e religiosi dovrebbe superare quota 61 seggi, che gli
garantirebbero la maggioranza. Nel 2009 vinse il partito di centro
Kadima ma non riuscì a formare un governo. Alla guida dell’esecutivo
arrivò Netanyhau forte di un accordo con Shar e Israel Beiteinu.Le
intenzioni di voto sembrano non essere intaccate neanche dallo
scambio di accuse tra i principali attori della politica e delle
istituzioni del Paese. Come l’esternazione del presidente della
Repubblica, Shimon Peres, con la quale ha espresso la sua
frustrazione per la situazione di stallo in cui si trova il processo
di pace con i palestinesi, o l’attacco senza precedenti al premier
da parte dell’ex capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza
interno) Yuval Diskin: “Netanyahu è prigioniero di paure e
incertezze. E’ un opportunista, privo della capacità di dare un
esempio personale come leader. Aperto a idee fantastiche e
messianiche, che lasciano a bocca aperta, con un allarmismo non
motivato”. Anche l’ex premier Olmert non ha risparmiato accuse a
chi, secondo lui, ha innescato un processo di paura nella
popolazione. “Il
governo ha sperperato negli ultimi due anni l’equivalente di oltre
due miliardi di euro per progetti militari di pura fantasia e
avventurosi”. Colpi “bassi” che non hanno scalfito minimamente
la macchina elettorale di Netanyahu. Anzi. Nelle ultime settimane
l’avanzata del premier e dei suoi “compagni” di destra e
ultradestra è proseguita. Forte anche dell’ondata di nazionalismo
che sta permeando la vigilia del voto.E’
il caso di Bennet, deciso oppositore della nascita di uno Stato
palestinese. Fino allo scorso novembre, quando è stato eletto alla
guida del piccolo partito religioso nazionalista “Habait Hayehudi”
(Casa Ebraica), era un nome sconosciuto alla maggioranza degli
israeliani. Ora, secondo i sondaggi, si avvia a diventare leader del
terzo partito del paese. Nella sua visione, la nascita di uno Stato
palestinese sarebbe un “suicidio” per Israele e va decisamente
contrastata. Inoltre bisognerebbe annettere la zona C della
Cisgiordania, un’area che costituisce circa il 60% della West Bank,
compresa la Valle del Giordano e la maggior parte degli insediamenti.
I 50 mila “arabi” (Bennet evita il termine palestinesi) che vi
abitano potrebbero chiedere la nazionalità israeliana. Ai
palestinesi delle aree A e B verrebbe concessa solo un’autonomia
limitata. Da
parte sua Netanyahu, pur ribadendo l’obiettivo di una pace con due
Stati, sta cavalcando le ragioni dei coloni ma, al tempo stesso,
prosegue con la politica delle “barriere”. Dal Golan al Sinai,
Israele deve difendersi con barriere contro l’avanzata della Jihad
mondiale. E così il premier nel bel mezzo della campagna elettorale
ha fatto un sopralluogo lungo la linea di confine con il Sinai
egiziano. Due anni fa c’era solo deserto: oggi c’è una moderna e
solida barriera di 230 chilometri che serve a scongiurare
“l’infiltrazione in Israele dei terroristi”. E lo stesso sarà
fatto nel Golan, al confine con la Siria. I primi 4 chilometri sono
stati già completati, ne restano altri 54. L’opera dovrebbe essere
ultimata nei prossimi mesi.Sul
versante opposto, sembra scontato che le tre liste di centro-sinistra
non saranno compatte per essere l’anti-Likud. Restano distanti,
infatti, le posizioni dei tre leader contro il partito del premier e
degli alleati dell’ex ministro degli Esteri Lieberman. In questo
clima più che rovente, forse il più infuocato degli ultimi decenni,
Ue e Stati Uniti non stanno a guardare. Secondo fonti bene informate,
l’Unione europea dovrebbe a breve rilanciare trattative serrate tra
Israele e Anp, nel tentativo di costituire in tempi brevi uno Stato
palestinese indipendente lungo le linee precedenti alla guerra del
1967, con possibili scambi di territori. I 27 potrebbero anche
esigere il congelamento della colonizzazione. E la Casa Bianca,
favorevole a questa ipotesi, sta già tastando il terreno con i suoi
inviati e il nuovo Segretario di Stato John Kerry. In questo
scenario, dove i più interessati al risultato delle elezioni
sembrano gli “alleati di sempre” di Israele e non i vicini arabi,
il nuovo governo potrebbe trovarsi “stretto nell’angolo”. A
questo si aggiunge anche la situazione in Siria, che ha congelato le
opzioni più dure degli Stati Uniti contro l’Iran. Le sorti del
regime di Damasco giocheranno un ruolo fondamentale nella partita a
scacchi sul nucleare degli ayatollah.“La
logica della forza che contraddistingue il governo di Israele renderà
il Paese sempre più isolato dal resto della regione”, ha affermato
il re giordano Abdallah II. Un monito o un auspicio? Di fatto una
realistica fotografia. Alla quale fa eco il sondaggio di Global Peace
Index: il 67% degli israeliani non crede che il prossimo governo farà
la pace con i palestinesi, indipendentemente dal risultato del 22
gennaio, perché i negoziati sono in stallo per motivi che non
dipendono in alcun modo da Israele. Messaggio forte e chiaro per
Obama, Unione europea, Onu, Paesi arabi e Abu Mazen. di Nello Rega
http://www.televideo.rai.it/
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