giovedì 24 gennaio 2013
Aliyà: dall’Italia è un vero boom
Famiglie con bambini piccoli, studenti in procinto di iniziare
l’università, ma anche persone più in là con gli anni, che decidono di
“mollare” quello che hanno costruito in Italia per una nuova “seconda
vita”. Questi sono solo alcuni profili dei tanti italiani che negli
ultimi anni hanno deciso di fare l’aliyà, trasferendosi definitivamente
in Israele. Ma è soprattutto dal 2011 che il fenomeno ha assunto
proporzioni davvero ragguardevoli per il nostro Paese, raggiungendo
numeri inediti. «Le cifre sono letteralmente raddoppiate -spiega Arielle
Di Porto, responsabile per la Sochnut dell’aliyà per l’Europa e i Paesi
arabi-. Si parla infatti di un incremento di circa il 98% rispetto allo
scorso anno. La maggioranza viene da Roma, circa l’80%: il resto è
diviso principalmente tra Milano, Torino e Firenze. È essenzialmente
un’aliyà giovane, composta da studenti e famiglie spinti da una forte
motivazione sionista. A questo, però, si aggiunge senza dubbio il peso
della crisi economica che, in molti casi, ha accelerato i tempi. Ma,
attenzione, questa non è un’aliyà di fuga: rimane un fenomeno
estremamente consapevole e convinto. Senza contare che, alla base di
molte di queste aliyot, c’è un forte ritorno all’ebraismo e alla
religione».I numeri della Sochnut parlano chiaro: dal 1° gennaio al 31 luglio
2012 gli olim hadashim italiani sono stati 97, mentre nello stesso
periodo dell’anno precedente erano stati 49, e, nel corso di tutto il
2011, 107. Considerando questi dati, è dunque facile pensare che alla
fine di quest’anno si arrivi molto vicini alle 200 persone. «Certo, si
tratta di numeri non paragonabili alle foltissime immigrazioni dalla
Francia o dall’Inghilterra -continua Di Porto-. Ma sicuramente l’aliyà
italiana è quella che quest’anno registra l’incremento più alto e
inaspettato fra tutti i Paesi dell’Europa Occidentale».Un’unica grande motivazione sionista, dunque, anima tutte le aliyot
italiane. I motivi scatenanti, tuttavia, sono molteplici a seconda dei
casi. «A grandi linee, si può dire che fra gli olim di Roma la
motivazione economica è più frequente rispetto a quelli provenienti da
altre città -spiega Claudia De Benedetti, presidente onorario della
Sochnut Italia-. Da Milano, sono molti i giovani che vogliono studiare
in Israele, per poi rimanerci, o anche famiglie giovani, che decidono di
dare ai propri figli un futuro con più possibilità, in un luogo dove
poter vivere serenamente la propria identità ebraica. Ci sono poi alcune
famiglie che hanno fatto il ghiur e hanno deciso di trasferirsi in
Israele. Alla base, però c’è sempre un forte sionismo che spinge a fare
il grande passo».
LA SPINTA? LA CRISI
Proprio per affrontare la crescente domanda di aliyot, la Comunità di
Roma ha creato, già tre anni fa, un assessorato interno, che affianca e
integra il lavoro della Sochnut. «Con questo ufficio riusciamo a dare a
chi deve partire le informazioni concrete di cui hanno bisogno -spiega
Marco Moscati, delegato della Comunità ebraica di Roma, ex consigliere e
oggi assessore all’aliyà-; e questo grazie all’intervento di
professionisti volontari (avvocati, commercialisti, ecc..) che danno
spiegazioni chiare su tutti gli aspetti burocratici e legali legati al
trasferimento. Inoltre, abbiamo organizzato un ulpan, per dare
un’infarinatura di ebraico a chi sta per partire, e facilitare così
l’inserimento nella società israeliana». Inoltre, l’assessorato per
l’aliyà ha creato un fondo, per aiutare economicamente le famiglie nel
primo periodo, quando sono ancora in attesa di trovare un lavoro. E poi
c’è il rapporto di collaborazione con l’Irgun Olé Italia, una onlus con
sede a Gerusalemme, che si occupa di aiutare gli olim italiani una volta
arrivati in Israele.È tuttavia quest’anno, si diceva, che le aliyot italiane sono
raddoppiate, e l’80% di esse è romana. «Ultimamente, la crisi economica
ha colpito duramente la comunità ebraica di Roma -spiega Moscati-. Per
questo alcune famiglie in difficoltà, animate da un forte sionismo,
hanno deciso di trasferirsi in Israele, per poter dare un futuro
migliore ai propri figli: si può dire che circa il 40% delle aliyot da
Roma sono di natura economica. A queste persone il nostro ufficio dà un
supporto economico, che può servire per pagare i container da spedire o
per pagare l’affitto dei primi mesi. I centri di assorbimento in
Israele, infatti, sono sempre meno, e quindi gli olim italiani devono
per forza trovare un appartamento in affitto». Non mancano, poi, i
ragazzi: giovani che vanno in Israele per studiare, convinti che lì vi
siano prospettive migliori di incontro, di vita e di studio rispetto a
quanto offerto dall’Italia.
«PARTIRO’ CON IL MIO ZOO»
Abbiamo dunque raccolto qualche voce, di chi ha fatto l’aliyà
nell’ultimo anno, per capirne motivazioni e difficoltà incontrate sul
percorso. Gente di diverse età, background e motivazioni, che
testimoniano la varietà di quest’aliyà Tricolore.
Giulia Mosseri, 21 anni, da Milano: «Fin dall’età di
tre anni ho sempre frequentato una scuola ebraica. Giunta in 4a
superiore ho iniziato a pensare al mio futuro e l’idea prevalente è
stata quella di trasferirmi in Israele per proseguire gli studi, ma con
l’obiettivo di restarvi. Dopo la maturità sono riuscita, superando molte
difficoltà, ma anche con molta fortuna, a realizzare il mio sogno.
Arrivata in Israele ho dapprima fatto l’ulpan e poi un anno di Mehinà
presso l’Università di Bar Ilan. Dopo questo primo anno di ‘prova’ ho
ufficialmente fatto l’aliyà il 16 ottobre 2011. Attualmente ho terminato
il primo anno di studi in Scienze Politiche e Studi dei Paesi del Medio
Oriente.Cosa mi ha spinto a fare questa scelta? Ero ben inserita nella vita
comunitaria, ma non mi bastava. Sentivo di voler vivere in un Paese dove
non fossi parte di una minoranza, dove potessi muovermi più a mio agio,
dove i miei sforzi potessero in qualche modo essere utili al mio
popolo.E ora che sono qua, mi rendo conto di che bel Paese sia questo,
giovane, dinamico, che guarda al futuro. Non è stato semplice integrarmi
nella società israeliana soprattutto per il problema della lingua. Una
seconda grande difficoltà è la diversità del mondo israeliano in
rapporto agli altri Paesi. Israele ha al suo interno tantissimi mondi
culturali tutti diversi l’uno dall’altro. Arrivata qui, ho ricevuto
quello che mi spettava come nuova immigrata : 2 anni e mezzo di
università pubblica pagata e 500 € ogni mese per 6 mesi come sostegno
alle spese, più altre agevolazioni.L’Italia, a mio parere, offre pochissimo ai giovani italiani, e tanto
meno ai giovani ebrei italiani. I giovani hanno bisogno di valori, di
speranze, di ideali. Ma soprattutto di sogni, della possibilità di
vivere in un mondo migliore, creato da loro stessi. E l’Italia,
diciamolo, non soddisfa più queste aspettative, e non solo da un punto
di vista ebraico».
Giuseppe Dell’Ariccia e famiglia, 62 anni, da Roma:
«Partirò con la mia compagna e il mio giardino zoologico, tre cani e due
gatti. Partiremo nei primi mesi del 2013. In realtà, io sono molto
soddisfatto del mio lavoro e della vita qui a Roma. Ma la decisione di
fare l’aliyà nasce dalla volontà di realizzare un sogno, quello di
essere un interprete attivo della realtà d’Israele. Attualmente non ho
nessun lavoro che mi aspetta lì: ho delle idee, ovviamente, anche se so
che non è facile trovare lavoro a 62 anni. La cosa che mi spaventa di
più è la non padronanza dell’ebraico, ma sto cercando di migliorare. La
cosa che mi rende più tranquillo: Israele è casa mia. Per la
preparazione al viaggio abbiamo avuto un buon sostegno sia dalla Sochnut
che dall’Assessorato all’aliyà della Comunità di Roma. Se ho paura di
un conflitto con l’Iran? Non ci penso neppure: se sarà, sapremo
rispondere».
Anat Levy e famiglia, da Milano: «Abbiamo fatto
l’aliyà il 13 agosto 2012. La nostra primogenita è arrivata due anni fa
qui in Israele per iniziare l’università. Allo stesso modo gli altri
nostri figli, terminato il liceo della Scuola ebraica lo scorso luglio,
avrebbero inevitabilmente lasciato l’Italia per vivere in Israele. Non
me la sentivo di lasciar partire metà della nostra famiglia e consentire
che vivesse in Israele senza di noi. Ma certo, alla base eravamo
animati da un forte sionismo. Ambientarsi in un posto nuovo è sempre
difficile, non è la solita vacanza che eravamo abituati a fare in
passato. Abbiamo avuto molti problemi burocratici prima e dopo l’aliyà
(i documenti da raccogliere sono stati tantissimi), ma, una volta
risolti, abbiamo dato il via alla nostra quotidiana ‘normalità’. Le
prime settimane sono state complicate anche per via delle novità: la
casa nuova e la città ancora del tutto sconosciuta, ma la famiglia e gli
amici sono stati di grande aiuto. Un Paese come Israele è certo più
promettente rispetto a ciò che l’Italia ha da offrire. In questo periodo
ho seguito un documentario sulla tv israeliana in cui mostrano l’Islam
radicale in Europa e mai come ora sono convinta della decisione che ho
preso. In questo dossier mostrano il pericolo causato da queste cellule
estremiste a Malmo, Parigi, Londra, ma che rivedo tantissimo in molte
esperienze vissute sulla mia pelle a Milano. Vedo i miei figli e i loro
amici che vivono e studiano qui; la semplicità e la felicità di vivere
mi lasciano incredula e completamente soddisfatta della scelta che
abbiamo intrapreso».
Raffaele Picciotto e famiglia, da Milano: «Ho fatto
l’aliyà il 19 marzo 2012, con mia moglie. Gli ultimi tempi, prima di
partire, mi ero divertito ad osservare le reazioni della gente comune
quando, casualmente nella conversazione annunciavo: “sapete, noi ce ne
andremo tra poco da Milano”, “ ah, e dove andrete?” “a Gerusalemme …”.
Ciò che ne seguiva era meritevole di un vero e proprio trattato
sociologico. Vi era chi spalancava gli occhi stupito, persone che prima
parlavano con una voce piatta e monotona, quasi annoiata sembravano
risvegliarsi da un lungo torpore e si illuminavano. Alcuni stupiti
chiedevano se non era pericoloso; probabilmente pensavano che forse
eravamo un po’ matti. Alcuni ridevano, altri non davano peso e passavano
oltre con malcelata ostilità.La motivazione principale è che le nostre tre figlie hanno fatto, una
dopo l’altra, l’aliyà; secondariamente perché non vediamo un futuro per
noi in Italia, sia dal punto di vista ebraico che generale.La maggiore difficoltà che abbiamo incontrato è stata la lingua,
anche se avevamo una conoscenza di base. Infatti le cose spicciole di
tutti i giorni sono tutte in ebraico e non siamo in grado ancora né di
leggere i giornali né di capire i notiziari, né di leggere i documenti
(bollette, contratti ecc.). Abbiamo però iniziato l’Ulpan e ci mettiamo
grande impegno. Una sorpresa positiva è stata l’efficienza dei servizi:
ad esempio, il passaporto e la patente inviatici a casa in pochi giorni,
via posta, o l’assistenza sanitaria completamente digitalizzata.
L’emozione più forte e inaspettata è stata la sirena: la prima volta che
l’abbiamo sentita è stato per Yom HaShoah. Eravamo per strada. Il
traffico si fermò, la gente scese dalle macchine, dai taxi e dagli
autobus e si mise sull’attenti, insieme ai passanti sui marciapiedi. Un
bizzarro e fragoroso silenzio scese sulla città. Durò solo due minuti,
non volava una mosca, ma fu sufficiente per farci provare una grande
commozione. Questo è davvero un Paese unico. E unico è quello che riesce
a trasmettere: emozioni che vissute in prima persona si dimostrano
un’esperienza indimenticabile».http://www.mosaico-cem.it/
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