Hannah Arendt, Eichmann a Gerusalemme: il rapporto sulla banalità del male nella pellicola di Margarethe von Trotta
Ci sono libri che son frutto dell’occasione, di un
pensiero stimolato da fatti realmente accaduti e trasfigurata in una
riflessione sociologica che ha il duplice pregio di ancorarsi sulla
realtà che l’ha nutrita come un potente humus per mirare verso l’alto
con il suo stelo forte e leggero. Uno di questi riusciti esempi,
realizzato in seguito al processo che porto’ alla condanna a morte per
impiccagione del funzionario nazista Otto Adolf Eichmann, tra i
principali responsabili della logistica delle deportazioni degli ebrei e
della Soluzione finale scampato alla falce di Norimberga, ritrovato dal
Mossad in Argentina, giudicato in Israele nel 1961 e impiccato nella
primavera del 1962, proviene dall’acume della filosofa tedesca
naturalizzata statunitense Hannah Arendt (che non
utilizzo mai tale definizione per riferirsi a se stessa, preferendo
quella riferita al ruolo di professore di teoria politica più volte
ricoperto) e risponde al nome di “Eichmann a Gerusaleme”.Si tratta del resoconto dedicato del
giudizio di uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto,
scritto dalla Arendt tra il 1960 e il 1964, costituito dall’unione di
cinque articoli pubblicati sul New Yorker solo nel febbraio-marzo 1963, è stato successivamente pubblicato sotto forma di libro il cui titolo completo “Eichmann a Gerusalemme: rapporto sulla banalità del male”,
ha provocato un terremoto nell’America dell’epoca e non solo. Un testo
contestato fin da subito, destinato a far discutere e ormai diventato un
classico inserito nei programmi di gran parte dei corsi universitari di
filosofia teoria politica. Ma non c’è troppo da stupirsi sui tempi, la
Arendt non era una giornalista, ma una fine analista, la sua non è una
cronaca dei fatti, ma una salda cogitazione che parte dal processo per
giungere alla conclusione dell’assoluta normalità dell’accusato e
proprio per questo della pericolosa potenza di disumanizzazione di un
discorso, quello totalitario già più volte da lei stessa sviscerato,
capace di applicare un’assoluta riduzione dell’umano ad ingranaggio.Eichmann, burocrate per eccellenza, non mostra alcun rimorso ed
incarna nella fredda e meticolosa ripetizione dei dati un attaccamento
irragionevole non alla sua opera, ma a quella religiosamente promulgata
dal regime. E lì che risiede la spersonalizzazione, il dualismo che lo
caratterizza, segnata dalla relativa interruzione di ogni dialettica
interiore, l’intelligenza umana si fa mera deriva strumentale, ed apre
la strada ad un abisso nel quale anche le vittime partecipano di un
doloroso assopimento.Una conseguenza estratta con rigore filosofico che valse alla Arendt
ogni sorta di ostilità da parte delle comunità ebree ben radicate nel
tessuto newyorkese, ma anche dell’opinione pubblica, che si limitò in
molti casi a rigettare la sua tesi abominevole come l’impossibile difesa
di un mostro e a preferire quella più rassicurante di male radicale,
promulgata da molta parte della letteratura sull’olocausto e anche
dall’amico Hans Jonas, senza rendersi conto, oppure sapendolo e
volendone evitare a tutti i costi le conseguenze, che la banalità
indicata da Hannah è di natura ancora più insidiosa e assoluta, proprio
in quanto accanito perturbatore della stessa nozione d’umanità, ma
presente in essa come possibilità e non estraneo, ragione per la quale
Eichmann avrebbe dovuto esser condannato per aver attentato alla base
stessa dell’umano.Il film che ne è stato tratto dalla regista, anch’essa tedesca, Margarethe von Trotta,
vede una magistrale Barbara Sukowa nel ruolo della protagonista e si
svolge durante il periodo del processo con numerosi ed intensi
flashback. Sottolinea come fu proprio la Arendt, già piuttosto nota
all’epoca, a proporre al redattore capo del giornale di coprire
l’evento, attirando su di sé la furia di un intero popolo e di alcuni
cari amici come Jonas, accorso alle sue lezioni dopo l’uscita degli
articoli e profondamente ferito dalla tesi di Hannah al punto di
chiudere ogni rapporto con lei. Eppure il desiderio di delucidazione
della Arendt è tutto tranne disumano, risponde piuttosto ad un profondo
bisogno di comprensione, che il film mette in luce attraverso i suoi
silenzi, nelle nuvole di fumo delle innumerevoli sigarette accese dai
vari protagonisti e soprattutto nei volti degli studenti, meno segnati
dal pesante fardello della storia e forse anche per questo più pronti a
sviscerarne la natura.La pellicola raggiunge i suoi momenti più forti proprio nelle
lezioni, siano esse quelle di Martin Heidegger a Friburgo prima, o
quelle della sua allieva prediletta, delusa dal maestro dopo la
pubblicazione de “L’autoaffermazione dell’università tedesca” dopo, in
entrambi i casi l’energia del pensiero buca lo schermo, e va ben oltre
il tempo.
Vedere, ascoltare Eichmann al suo processo fu per lei
un’opportunità che non si sarebbe mai ripresentata dato che non aveva
potuto assistere al processo di Norimberga. Una chance? Che dico? Una
catarsi, une cura posteriore (una terapia ritardata), come scrisse ad
una grande amica americana…
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