domenica 5 maggio 2013

Hannah Arendt, Eichmann a Gerusalemme: il rapporto sulla banalità del male nella pellicola di Margarethe von Trotta

Ci sono libri che son frutto dell’occasione, di un pensiero stimolato da fatti realmente accaduti e trasfigurata in una riflessione sociologica che ha il duplice pregio di ancorarsi sulla realtà che l’ha nutrita come un potente humus per mirare verso l’alto con il suo stelo forte e leggero. Uno di questi riusciti esempi, realizzato in seguito al processo che porto’ alla condanna a morte per impiccagione del funzionario nazista Otto Adolf Eichmann, tra i principali responsabili della logistica delle deportazioni degli ebrei e della Soluzione finale scampato alla falce di Norimberga, ritrovato dal Mossad in Argentina, giudicato in Israele nel 1961 e impiccato nella primavera del 1962, proviene dall’acume della filosofa tedesca naturalizzata statunitense Hannah Arendt (che non utilizzo mai tale definizione per riferirsi a se stessa, preferendo quella riferita al ruolo di professore di teoria politica più volte ricoperto) e risponde al nome di “Eichmann a Gerusaleme”.Si tratta del resoconto dedicato del giudizio di uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto, scritto dalla Arendt tra il 1960 e il 1964, costituito dall’unione di cinque articoli pubblicati sul New Yorker solo nel febbraio-marzo 1963, è stato successivamente pubblicato sotto forma di libro il cui titolo completo “Eichmann a Gerusalemme: rapporto sulla banalità del male”, ha provocato un terremoto nell’America dell’epoca e non solo. Un testo contestato fin da subito, destinato a far discutere e ormai diventato un classico inserito nei programmi di gran parte dei corsi universitari di filosofia teoria politica. Ma non c’è troppo da stupirsi sui tempi, la Arendt non era una giornalista, ma una fine analista, la sua non è una cronaca dei fatti, ma una salda cogitazione che parte dal processo per giungere alla conclusione dell’assoluta normalità dell’accusato e proprio per questo della pericolosa potenza di disumanizzazione di un discorso, quello totalitario già più volte da lei stessa sviscerato, capace di applicare un’assoluta riduzione dell’umano ad ingranaggio.Eichmann, burocrate per eccellenza, non mostra alcun rimorso ed incarna nella fredda e meticolosa ripetizione dei dati un attaccamento irragionevole non alla sua opera, ma a quella religiosamente promulgata dal regime. E lì che risiede la spersonalizzazione, il dualismo che lo caratterizza, segnata dalla relativa interruzione di ogni dialettica interiore, l’intelligenza umana si fa mera deriva strumentale, ed apre la strada ad un abisso nel quale anche le vittime partecipano di un doloroso assopimento.Una conseguenza estratta con rigore filosofico che valse alla Arendt ogni sorta di ostilità da parte delle comunità ebree ben radicate nel tessuto newyorkese, ma anche dell’opinione pubblica, che si limitò in molti casi a rigettare la sua tesi abominevole come l’impossibile difesa di un mostro e a preferire quella più rassicurante di male radicale, promulgata da molta parte della letteratura sull’olocausto e anche dall’amico Hans Jonas, senza rendersi conto, oppure sapendolo e volendone evitare a tutti i costi le conseguenze, che la banalità indicata da Hannah è di natura ancora più insidiosa e assoluta, proprio in quanto accanito perturbatore della stessa nozione d’umanità, ma presente in essa come possibilità e non estraneo, ragione per la quale Eichmann avrebbe dovuto esser condannato per aver attentato alla base stessa dell’umano.Il film che ne è stato tratto dalla regista, anch’essa tedesca, Margarethe von Trotta, vede una magistrale Barbara Sukowa nel ruolo della protagonista e si svolge durante il periodo del processo con numerosi ed intensi flashback. Sottolinea come fu proprio la Arendt, già piuttosto nota all’epoca, a proporre al redattore capo del giornale di coprire l’evento, attirando su di sé la furia di un intero popolo e di alcuni cari amici come Jonas, accorso alle sue lezioni dopo l’uscita degli articoli e profondamente ferito dalla tesi di Hannah al punto di chiudere ogni rapporto con lei. Eppure il desiderio di delucidazione della Arendt è tutto tranne disumano, risponde piuttosto ad un profondo bisogno di comprensione, che il film mette in luce attraverso i suoi silenzi, nelle nuvole di fumo delle innumerevoli sigarette accese dai vari protagonisti e soprattutto nei volti degli studenti, meno segnati dal pesante fardello della storia e forse anche per questo più pronti a sviscerarne la natura.La pellicola raggiunge i suoi momenti più forti proprio nelle lezioni, siano esse quelle di Martin Heidegger a Friburgo prima, o quelle della sua allieva prediletta, delusa dal maestro dopo la pubblicazione de “L’autoaffermazione dell’università tedesca” dopo, in entrambi i casi l’energia del pensiero buca lo schermo, e va ben oltre il tempo.

Vedere, ascoltare Eichmann al suo processo fu per lei un’opportunità che non si sarebbe mai ripresentata dato che non aveva potuto assistere al processo di Norimberga. Una chance? Che dico? Una catarsi, une cura posteriore (una terapia ritardata), come scrisse ad una grande amica americana…
VIDEO:  http://www.booksblog.it/post/49051/hannah-arendt-eichmann-a-gerusalemme-nella-pellicola-di-margarethe-von-trotta

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