mercoledì 15 maggio 2013
Due notizie interessanti giungono da Israele. La prima è che le
“femministe” del Muro del Pianto sembrano aver vinto la loro battaglia
egalitaria, o almeno il suo primo round, quella per il diritto a pregare
davanti al Kotel secondo i rituali che l’ebraismo ortodosso riserva
agli uomini. La seconda è che il neoministro delle Finanze, Yair Lapid,
fresco vincitore “morale” delle elezioni politiche, ha predisposto un
taglio da 800 milioni di dollari al budget delle forze armate,
suscitando la prevedibile protesta dei vertici militari.Più sorprendente, però, è la reazione della classe media che ha
largamente sostenuto Lapid solo due mesi fa: insoddisfazione e delusione
per una sforbiciata giudicata troppo morbida. Per chi conosce il ruolo
fondamentale dell’esercito nella società israeliana, un atteggiamento
davvero impressionante, che mostra il piglio con cui intere categorie
sono decise a rompere con il passato, con gli ortodossi, con i miti
fondativi (tra cui Tzahal), e interessate viceversa alla crescente
sperequazione sociale e alla crisi economica di alcuni settori.Senza indulgere in sentimenti facili – soddisfazione per i “liberal” e
riprovazione per i religiosi e i nazionalisti – mi pare utile rilevare
quanto questi due episodi confermino la disgregazione culturale e
identitaria cui lo Stato d’Israele rischia di correre incontro. Il
sionismo ha da subito avuto varie anime (religiosa, nazionalista,
socialista, di sopravvivenza) ma l’elemento di novità e la minaccia
esterna riuscivano a tenere insieme le contraddizioni. Se la novità
sfuma nel tempo e la minaccia si incancrenisce senza speranza fino a
cronicizzarsi, ecco che questi legami tendono a dissolversi. Che cosa
tiene unita la società israeliana, che cosa lega gli israeliani, questa è
la grande domanda per il sionismo nel XXI secolo.Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas,http://moked.it/blog/
(14 maggio 2013)
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