sabato 4 maggio 2013

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo bellissimo tema di Luca Vitiello di Casamassima (Bari), dove frequenta la classe III della Scuola Media Dante Alighieri.

La lettera che avrei voluto scriverti
Auschwitz, 1944
Caro Marcus,
se starai leggendo questa lettera. significa che non ce l’ho fatta, perché mi ero ripromesso che se fossi sopravvissuto avrei eliminato le prove di quella atroce esperienza.Avevo appena compiuto 10 anni, quando fui strappato dalle braccia dei miei genitori, iniziai gridare e a piangere, ma più mi dimenavo, più venivo strattonato, allora fui preso di peso e buttato dentro un camion.Eravamo tutti ammassati ed impauriti con lo sguardo perso nel vuoto; arrivammo in una struttura tetra e spettrale, entrai piano per la troppa paura. Vidi tantissimi bambini ed adulti senza capelli, li come zombi a scavare e scavare, avevano tutti quanti la stessa divisa ed un numero sul braccio; ad un tratto un signore, non so il motivo, prese a scappare e mentre correva iniziò a gridare alcune parole, forse era in cerca della sua famiglia, veniva verso di me, quando io vidi stramazzare al suolo, aveva una pallottola nella schiena e lontano, dietro dl lui, c’era un tedesco con il fucile puntato ancora fumante. Quell’immagine non la dimenticherò mai:il sangue dl quell’uomo, che stava propagandosi, colorando la neve di un rosso sbiadito di un’anima ormai perduta.I tedeschi gridando e spingendo ci condussero in un capannone dove fummo costretti a toglierci i nostri vestiti e iniziarono a rasarci la testa; tutti i capelli venivano conservati, ma quale uso ne avrebbero mai fatto...Come tutti gli altri fui obbligato ad indossare quella divisa sporca e maleodorante e infine fui marchiato indelebilmente con un numero, era il mio, non avevo più un’identità, avevo perso ogni cosa, adesso ero divenuto il 6890074. Ma perché non potevamo tenerci i nostri vestiti, nostri nomi; perché non potevamo rivedere le nostre famiglie, ma soprattutto, che cosa avevamo fatto per meritarci questa dura e cruda realtà che gli altri definivano, “Campo di concentramento”... Era notte fonda e dopo tanto lavorare mi meritavo proprio una bella dormita, ma non fu così, il letto era sprovvisto di materasso e dovevo condividerlo con altri; quella notte fu una notte terribile e fu la prima volta che mia madre non mi dava il consueto bacio prima di addormentarmi.All’alba i kapò ci dissero di seguirli e così, una volta spogliati, ci portarono nelle docce, finalmente una bella doccia, ma gli altri non la pensavano allo stesso modo, anzi erano spaventati: ma che male avrebbe mai fatto una doccia?All’uscita ripresi la mia divisa e mi affrettai a chiedere ad un bambino perché le persone fossero così terrorizzate ed il bambino, con una voce sottile mi rispose: fanno bene le persone ad avere paura, spesso le docce non sono vere e proprie docce ma camere a gas e a volte, senza rendersene conto, una doccia può diventare fatale. Nei giorni seguenti mi accorsi che c’era un viavai di persone, molte arrivavano, moltissime altre sparivano, anche lo stesso bambino a cui avevo chiesto informazioni era svanito nel nulla, si era volatilizzato; spero che quel ragazzino sia sopravvissuto, ma così facendo mi illudo soltanto, ma come si suol dire “l’illusione è la strada più vicina alla convinzione”.Venne il giorno della selezione, ciò che io definirei più del “giudizio”, il quale ti conduce verso la morte o una presunta libertà, io venni scelto per andare a sinistra, cioè tra coloro che dovevano essere eliminati, ero troppo gracile per i loro intenti.Ero ad un passo dalla morte, mi spogliai e poi vennero aperte le porte della camera a gas, faceva molto freddo, troppo freddo e per giunta i piedi erano immersi in un acqua gelida, gelida come il mio viso quando fui deportato, non riesco neanche a descrivere il mio sentimento in quell’ istante ma so solo che ripensai ai bel momenti passati insieme a te Marcus, e alla tua famiglia. Nel ripensare a tutto ciò, i miei occhi lasciarono cadere una lacrima, nella quale era contenuta tutta la mia vita, che appunto finì per infrangersi nell’acqua sottostante.Ad un certo punto udii idegli spari e del frastuono, ma iI mio corpo era ormai accasciato a terra, senza respiro.Era il 27 gennaio 1945 quando abbandonai quel campo di concentramento, per andare in un posto migliore.
Benjamin il tuo amico ebreo.  Sullam 111

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