Tel Aviv, l'altra Silicon Valley
«In Israele ci sono troppe buone idee: il problema è capire quali sono
utili», quelle cioè che servono alla gente e al mercato e fanno
guadagnare. A dispetto dei suoi 28 anni, Yoav Oz di Star-Tau, fisico da
Navy Seals israeliani con i quali ha effettivamente prestato servizio di
leva, insegna a chi ha quelle idee a farne un business. A trasformare
un'intuizione in un'impresa.Delle 20 domande di ammissione che ogni giorno riceve da quando ha
aperto i battenti cinque mesi fa, Star-Tau ha selezionato 32 idee
meritevoli di diventare una start-up. Questo stesso centro di educazione
all'impresa creato da un gruppo di studenti all'ombra della Tau,
l'Università di Tel Aviv, è una nuova impresa. La Tau aveva dato loro
1.500 dollari e oggi muovono un capitale da un milione.Quando trova il suo terreno naturale, una start-up è un cromosoma
culturale ed economico in continua mutazione. Secondo lo start-up
Ecosystem Report 2012 nessun luogo al mondo dopo la Silicon Valley gli è
più congeniale di Tel Aviv. Seguono Los Angeles, Seattle, New York,
Boston e Londra. Per essere precisi, più di Tel Aviv, il quartiere Nord
orientale di Ramat Hahayal. L'universo israeliano dell'hi-tech e dei
media digitali lo ha sviluppato in questo quindicennio semplicemente
perché nel folle mercato immobiliare della città, i prezzi erano i più
bassi. E per la vicinanza all'Università: della fenomenale impresa
israeliana delle start-up, i 57 college e le otto università del Paese
sono un approdo fondamentale.È più complesso spiegare perché in Israele è accaduto tutto questo.
Perché in un Paese di 7,8 milioni di abitanti, con qualche serio
problema geopolitico alle porte, operino 5mila start-up: alcune muoiono,
molte diventano imprese consolidate, altre sono acquistate da
stranieri. «Dopo 24 mesi una start-up deve incominciare a prendere i
soldi dal mercato», dice Ziv Min-Dieli di The Time, uno dei 25
incubatori privati del Paese: in questo crescono 40 start-up e 400
sperano di entrare. Ma ogni anno ne nascono di nuove: 546 nel 2011, 575
l'anno scorso. Un programma statale iniziato un ventennio fa con 100mila
dollari ha creato un'industria da quattro miliardi. «Un master plan non
è mai esistito», spiega Benny Zeevi, co-presidente di Israel Advanced
Technology Industries, una piattaforma delle start-up. «In un certo
senso eravamo come Cristoforo Colombo: era partito con una mappa
sbagliata eppure ha scoperto l'America».Ma se negli Usa e in Europa le start-up sono genio e iniziativa privati
con il corollario di amministrazioni locali lungimiranti, in Israele è
molto di più. È l'impresa collettiva che definisce una nazione. Come i
kibbutz 65 anni fa. Le start-up sono il kibbutz tecnologico del XXI
secolo. Per spiegarne il senso, il miliardario Yossi Vardi usa la
parabola della "madre ebrea": «La tecnologia è ovunque. Ma in Israele
tutti i figli sanno che la mamma dirà loro: con tutto quello che ho
fatto per te, è troppo chiederti almeno un Nobel?». Negli ultimi dieci
anni Israele ne ha prodotti sei: le mamme dovrebbero essere soddisfatte.Tutto incomincia nel 1985 (Primo ministro Shimon Peres) con il programma
di stabilizzazione economica che trasforma Israele da Stato del welfare
socialdemocratico in neo-liberale. Prosegue con la rivoluzione
tecnologica delle Forze armate (Shimon Peres); con la Perestroika che
permette a migliaia di scienziati, matematici, inventori russi di
emigrare in Israele: il passaggio dal bagaglio teorico della loro
educazione sovietica a quello applicativo e commerciale ha richiesto
forse cinque anni, non una generazione. Poi c'è stato il dividendo della
pace di Oslo: nel 1973 le spese militari erano il 35% del Pil, a
partire dagli anni 90 scendono al 9. In maniera totalmente bipartisan, i
governi assemblano il valore aggiunto di tutti questi avvenimenti
politici e investono nei nuovi incubatori. A partire dal decennio scorso
gli incubatori passano interamente ai privati. La nuova frontiera delle
start-up ora è la ricerca nella neuro-biotecnologia. Senza lo Stato, tecnologia e start-up non avrebbero avuto queste
dimensioni. «Israele è piccolo e non è uno Stato federale: per
Gerusalemme è più facile determinare quel che accade a Tel Aviv», spiega
Avi Hasson, responsabile dell'ufficio del Chief Scientist del ministero
dell'Industria. Hasson è il regolatore del mondo delle start-up e dei
suoi finanziamenti: controlla i 25 incubatori del Paese, garantisce le
infrastrutture e molto denaro. «Noi non diamo soldi alle imprese ma ai
progetti di ricerca», precisa Hasson, 46 anni, venti dei quali da
venture capitalist privato, triennio di leva nello Shmoneh-Matayim. È
l'Unità 8200 dove i giovani geni del Paese passano i tre anni di leva
obbligatoria a inventare cose. Prima della pillola con la nanocamera per
indagare nell'intestino, il suo creatore aveva concepito la microcamera
sulla punta delle bombe sganciate dall'aviazione.Fissate le regole, ogni università, ogni incubatore è libero di fare
ricerca e raccogliere fondi. Anzi, ha il dovere di farlo. Get Taxi è
incominciato con un app e ora non è solo più semplice chiamare da un
cellulare un'auto pubblica in tutto Israele, 200 black cabs se sei a
Londra e 200 taxi a San Pietroburgo. È nata una filosofia: «È più facile
e meno dispendioso andare da un punto A a un punto B, riduce il
traffico, è tutto più ecologico», dice Nimrod May, Global VP marketing
di Get Taxi. Ma quando Dov Lautman di Delta, capitano storico
dell'industria tradizionale, stabilisce che «prima della stoffa c'è il
corpo» e vende 300 milioni di canotte e mutande nel mondo dopo un
processo produttivo di 18 gradi d'innovazione, anche la grande
manifattura gode delle ricadute delle start-up.Ugo Tramballi, http://www.ilsole24ore.com/
Nessun commento:
Posta un commento