martedì 28 maggio 2013

Tel Aviv, l'altra Silicon Valley 

«In Israele ci sono troppe buone idee: il problema è capire quali sono utili», quelle cioè che servono alla gente e al mercato e fanno guadagnare. A dispetto dei suoi 28 anni, Yoav Oz di Star-Tau, fisico da Navy Seals israeliani con i quali ha effettivamente prestato servizio di leva, insegna a chi ha quelle idee a farne un business. A trasformare un'intuizione in un'impresa.Delle 20 domande di ammissione che ogni giorno riceve da quando ha aperto i battenti cinque mesi fa, Star-Tau ha selezionato 32 idee meritevoli di diventare una start-up. Questo stesso centro di educazione all'impresa creato da un gruppo di studenti all'ombra della Tau, l'Università di Tel Aviv, è una nuova impresa. La Tau aveva dato loro 1.500 dollari e oggi muovono un capitale da un milione.Quando trova il suo terreno naturale, una start-up è un cromosoma culturale ed economico in continua mutazione. Secondo lo start-up Ecosystem Report 2012 nessun luogo al mondo dopo la Silicon Valley gli è più congeniale di Tel Aviv. Seguono Los Angeles, Seattle, New York, Boston e Londra. Per essere precisi, più di Tel Aviv, il quartiere Nord orientale di Ramat Hahayal. L'universo israeliano dell'hi-tech e dei media digitali lo ha sviluppato in questo quindicennio semplicemente perché nel folle mercato immobiliare della città, i prezzi erano i più bassi. E per la vicinanza all'Università: della fenomenale impresa israeliana delle start-up, i 57 college e le otto università del Paese sono un approdo fondamentale.È più complesso spiegare perché in Israele è accaduto tutto questo. Perché in un Paese di 7,8 milioni di abitanti, con qualche serio problema geopolitico alle porte, operino 5mila start-up: alcune muoiono, molte diventano imprese consolidate, altre sono acquistate da stranieri. «Dopo 24 mesi una start-up deve incominciare a prendere i soldi dal mercato», dice Ziv Min-Dieli di The Time, uno dei 25 incubatori privati del Paese: in questo crescono 40 start-up e 400 sperano di entrare. Ma ogni anno ne nascono di nuove: 546 nel 2011, 575 l'anno scorso. Un programma statale iniziato un ventennio fa con 100mila dollari ha creato un'industria da quattro miliardi. «Un master plan non è mai esistito», spiega Benny Zeevi, co-presidente di Israel Advanced Technology Industries, una piattaforma delle start-up. «In un certo senso eravamo come Cristoforo Colombo: era partito con una mappa sbagliata eppure ha scoperto l'America».Ma se negli Usa e in Europa le start-up sono genio e iniziativa privati con il corollario di amministrazioni locali lungimiranti, in Israele è molto di più. È l'impresa collettiva che definisce una nazione. Come i kibbutz 65 anni fa. Le start-up sono il kibbutz tecnologico del XXI secolo. Per spiegarne il senso, il miliardario Yossi Vardi usa la parabola della "madre ebrea": «La tecnologia è ovunque. Ma in Israele tutti i figli sanno che la mamma dirà loro: con tutto quello che ho fatto per te, è troppo chiederti almeno un Nobel?». Negli ultimi dieci anni Israele ne ha prodotti sei: le mamme dovrebbero essere soddisfatte.Tutto incomincia nel 1985 (Primo ministro Shimon Peres) con il programma di stabilizzazione economica che trasforma Israele da Stato del welfare socialdemocratico in neo-liberale. Prosegue con la rivoluzione tecnologica delle Forze armate (Shimon Peres); con la Perestroika che permette a migliaia di scienziati, matematici, inventori russi di emigrare in Israele: il passaggio dal bagaglio teorico della loro educazione sovietica a quello applicativo e commerciale ha richiesto forse cinque anni, non una generazione. Poi c'è stato il dividendo della pace di Oslo: nel 1973 le spese militari erano il 35% del Pil, a partire dagli anni 90 scendono al 9. In maniera totalmente bipartisan, i governi assemblano il valore aggiunto di tutti questi avvenimenti politici e investono nei nuovi incubatori. A partire dal decennio scorso gli incubatori passano interamente ai privati. La nuova frontiera delle start-up ora è la ricerca nella neuro-biotecnologia. Senza lo Stato, tecnologia e start-up non avrebbero avuto queste dimensioni. «Israele è piccolo e non è uno Stato federale: per Gerusalemme è più facile determinare quel che accade a Tel Aviv», spiega Avi Hasson, responsabile dell'ufficio del Chief Scientist del ministero dell'Industria. Hasson è il regolatore del mondo delle start-up e dei suoi finanziamenti: controlla i 25 incubatori del Paese, garantisce le infrastrutture e molto denaro. «Noi non diamo soldi alle imprese ma ai progetti di ricerca», precisa Hasson, 46 anni, venti dei quali da venture capitalist privato, triennio di leva nello Shmoneh-Matayim. È l'Unità 8200 dove i giovani geni del Paese passano i tre anni di leva obbligatoria a inventare cose. Prima della pillola con la nanocamera per indagare nell'intestino, il suo creatore aveva concepito la microcamera sulla punta delle bombe sganciate dall'aviazione.Fissate le regole, ogni università, ogni incubatore è libero di fare ricerca e raccogliere fondi. Anzi, ha il dovere di farlo. Get Taxi è incominciato con un app e ora non è solo più semplice chiamare da un cellulare un'auto pubblica in tutto Israele, 200 black cabs se sei a Londra e 200 taxi a San Pietroburgo. È nata una filosofia: «È più facile e meno dispendioso andare da un punto A a un punto B, riduce il traffico, è tutto più ecologico», dice Nimrod May, Global VP marketing di Get Taxi. Ma quando Dov Lautman di Delta, capitano storico dell'industria tradizionale, stabilisce che «prima della stoffa c'è il corpo» e vende 300 milioni di canotte e mutande nel mondo dopo un processo produttivo di 18 gradi d'innovazione, anche la grande manifattura gode delle ricadute delle start-up.Ugo Tramballi,  http://www.ilsole24ore.com/

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