"La breve vita dell'ebrea Felice Schragenheim Jaguar" (Berlino 1922-Bergen-Belsen 1945). Ediz. italiana e tedesca di Fischer Erica
lunedì 7 dicembre 2009
Berlino, le parole mute di Felice e Lilly.Sofisticata, controcorrente, anticonformista
Sofisticata, controcorrente, anticonformista. Un talento bruciato, una vita fatta di ardenti passioni. Oggi un libro ripercorre la storia di Felice Schragenheim, poetessa che morì a Bergen Belsen a soli 23 anni. Apre il libro una delle foto più toccanti. Lilly Wust ha 78 anni, è il 1991. Seduta al tavolo del suo tinello, solleva con la mano ossuta una delle foto dell’amica Felice sparse davanti a lei. Ha il viso scavato dal dolore, gli occhi pudichi nascondono una vita di lacrime. Lilly e Felice - Aimée e Jaguar, soprannomi letterari, secondo l’epica dell’amore -, si erano viste per l’ultima volta il 7 settembre 1944. La cronaca: “Arrivate a casa senza fiato dopo una lunga pedalata sotto il sole, ci trovano la Gestapo. ‘Non c’è bisogno che lo neghi’, afferma in tono tagliente l’uomo con i capelli scuri e l’uniforme delle SS, rivolgendosi a Felice, ‘lei è l’ebrea Schragenheim’. Felice tenta la fuga, corre via, attraversa il giardino e sale dalla signora Beimling, ma non c’è niente da fare. L’interrogatorio riprende. Dopo due ore arrivano altri uomini delle SS che avevano atteso in un camion pochi isolati più avanti. In silenzio Felice sfila l’anello con la pietra verde che porta al dito medio e lo consegna a Lilly, la bacia sulla fronte. Poi la portano via”. Secondo documenti conservati a Tel Aviv, muore nel marzo 1945, a soli 23 anni. Le mille testimonianze, le immagini, le lettere, le poesie, gli appunti raccolti dalla scrittrice Erica Fisher nel volume La breve vita dell’ebrea Felice Schragenheim (editore Beit, euro 32,00) dicono che si poteva essere felici. Che nella Berlino assediata dal Male la vita poteva pulsare ed espandersi e irradiare la sua grazia leggera. Che la paura poteva arrendersi di fronte alla normalità. Che nella tragedia, il cuore di Felice pulsava al suo solito ritmo, e di più. E che il suo sorriso restava invulnerabile: identico a quello che bambina esibiva nelle foto accanto alla sorella Irene. Felice nasce il 9 marzo 1922 all’ospedale ebraico di Berlino. Nella capitale tedesca vivono allora 173 mila ebrei, il 4,3 per cento della popolazione, il 30 per cento di tutti gli ebrei tedeschi. Il padre Albert è un dentista, la madre Erna Karewski anche. “Gli amici della famiglia sono ebrei di orientamento liberale e socialista. La casa è frequentata da avvocati, medici, artisti, come il noto scrittore Lion Feuchtwanger, cugino di secondo grado di Albert Schragenheim. Fra i loro amici vi è anche un rabbino: gli Schragenheim, pur non essendo religiosi, danno molta importanza alle tradizioni. La vita scorre abbastanza tranquilla: le vacanze nella Foresta Nera, a Binz, sull’isola di Rugen, sugli sci a Johannisbad, nel Reisengebirge. È tutto nelle foto. Il miracolo della vita di Felice risuona in un apparato documentario incredibile.Il certificato di nascita, l’iscrizione a scuola, i compagni delle elementari, i visti per l’espatrio, cartoline, lettere, poesie, ritratti, fogli strappati, quaderni, conti, tutto. Anche il primo lutto di Felice è inciso in un’immagine. L’incidente del 30 maggio 1930: la Fiat dei genitori si ribalta su una strada di campagna. Il papà rimane illeso, la mamma muore. Da lì, il precipizio: le prime epurazioni a partire dal 1933, la morte del padre nel 1935, l’esclusione dalla scuola dopo la Notte dei Cristalli fra il 9 e il 10 novembre 1937. In quello stesso anno Felice scrive: “Gli spiriti lungimiranti del nostro tempo/vedono nero, i miopi vedono rosso,/i presbiti distinguono tutti i colori./Vi è proprio di tutto, manca però/chi sappia veder chiaro”. L’impegno se lo prende in prima persona: io voglio vederci chiaro, dice Felice. Almeno questo racconta la sua vita. Una chiarezza che diventa strumento operativo. Tutti scappano, compresa l’amica Hilli Fränkel, ma lei no, resta a Berlino. Tra i documenti c’è un visto per l’Australia; forse potrebbe raggiungere lo zio Walter Karewski negli States; la sorella Irene va a Londra. Niente di fatto: “Per la Terra promessa / occorre prima prenotare”, scrive in versi. La sua vita è già prenotata qui, a Berlino. Da spendere nel clan effervescente e libertino dell’attrice Olga Cechova, tra fughe, nascondimenti e amori omosessuali. Fino all’incontro decisivo dell’ottobre 1942. L’amica Inge Wolf, con cui Felice condivide la casa, lavora come domestica da Elisabeth Lilly Wust, madre di quattro figli. Un giorno la padrona le confida di poter riconoscere un ebreo dall’odore. Come Inge lo riferisce all’amica, “Felice, che amava l’avventura e si annoiava in mancanza di un’occupazione, trova il fatto assai curioso e intende fare la prova di persona”. Alla fine di novembre le tre donne si danno appuntamento al Café Berlin nei pressi del Banhof Zoo. “Malgrado sia novembre, Lilly indossa un vestito di seta blu scuro a roselline bianche e azzurre. Accanto a Felice, così elegante nel suo fine tailleur inglese, si sente penosamente banale.Giunto il momento di congedarsi, Felice offre a Lilly una mela. Lei l’afferra tremante e la stringe forte tra le mani”.Detto così, un normale incontro. D’accordo, fulminante, ma agli esseri umani accade così, no? È la scena a essere folle. Berlino è nel pieno delle deportazioni; Felice, clandestina, non ha fissa dimora e sopravvive con documenti falsi; nel giro di qualche mese verrà il tempo dell’azione finale contro gli ebrei. Scrive in versi Felice: “…Una cosa almeno mi è comunque riuscita: / sognavo sempre di far cose folli / e di questo ora ho la prova: / a essere folle sono io!”. E Lilly? Sposata con un militare, quattro figli maschi. Che importanza ha? Nell’ottobre del 1943 si separa dal marito. Il 22 novembre squillano le sirene, intorno alle 20 inizia un attacco a tappeto. La gente sgombra le macerie, tappa le finestre con il cartone, si mette alla ricerca di amici colpiti dai bombardamenti. La follia della guerra e la follia dell’amore. Attestiamo i seguenti dieci punti, scrive Felice: “1) Ti amo follemente! 2) Ti amo follemente! 3) Ti amo follemente!…”. Risponde Lilly: “Con la presente certifico espressamente che sei un angelo!” La mistica della guerra, dell’onnipotenza cieca. E dentro la guerra, la mistica di un amore dallo sguardo adolescenziale, salvifico e impossibile. La relazione umana che diventa la pagliuzza del naufrago, strumento di una catarsi che restituisce qualche carezza, baci (documentati dalle foto), ma soprattutto nostalgia e dolore. Un incontro che alimenta il presagio della felicità e si trasforma in lutto infinito. “Il 21 agosto Lilly comincia a tenere un diario. Dopo la guerra ricopia tutte le sue annotazioni e le poesie di Felice in quello che definisce il suo ‘libretto delle lacrime’. L’8 settembre 1944 Felice viene deportata. Scrive il suo ultimo messaggio: “Mia amatissima gattina, sii sempre buona e coraggiosa e pensami! Il Pervitin me l’ha dato l’infermiera che ti ho presentato recentemente. È molto buona con me….”. Se l’energetica freschezza, se il chiarore di Felice è un fiore nato nello sterco nazista, la memoria di Lilly è l’alimento che l’ha tenuto in vita. Nulla sarebbe rimasto senza la costanza del ricordo amorevole di Aimée-Lilly. Le foto si sarebbero disperse, la storia deflagrata in mille schegge. Non sarebbero state le molte poesie raccolte a fine libro a resuscitare Jaguar-Felice. Lei che si credeva invulnerabile muore in un campo di concentramento. La vulnerabile Lilly sopravvive a se stessa e al ricordo di quell’amore. Non è solo Felice la protagonista di questo libro, le protagoniste sono due, Aimée e Jaguar. Una morta a 23 anni, l’altra il 31 marzo 2006, a 97 anni. La rabbia nazista ha condannato entrambe. La seconda, Lilly, a ricordare. Per 74 anni, una vita intera. di Fabrizio Sarpi http://www.mosaico-cem.it/
"La breve vita dell'ebrea Felice Schragenheim Jaguar" (Berlino 1922-Bergen-Belsen 1945). Ediz. italiana e tedesca di Fischer Erica
"La breve vita dell'ebrea Felice Schragenheim Jaguar" (Berlino 1922-Bergen-Belsen 1945). Ediz. italiana e tedesca di Fischer Erica
Etichette:
L'angolo della lettura
Gerusalemme
Ankara-Damasco-Teheran:un nuovo asse assedia Israele
La speranza è che sia solo un bluff, Ankara che ci manda a dire: vedete di cosa siamo capaci se non ci accettate in Europa? Il timore è che si tratti, invece, di una svolta strategica. Il baluardo islamico nella Nato, lo storico amico mediorientale di Israele, il paese-chiave dei futuri gasdotti, quello da cui Israele intendeva importare acqua coi container e di cui si fidava come mediatore coi vicini arabi, il polo kemalista chiamato a contrastare la penetrazione iraniano-sciita nell’Asia centrale turcofona: tutto questo sarebbe repentinamente evaporato. Chi ha qualche anno di più ricorda un tempo in cui il pan-arabismo militante pareva incastrato nel triangolo geo-politico delineato da tre fulcri non-arabi: Turchia, Persia, Israele. Tre decenni dopo – morto e sepolto il nasserismo, abbattuto lo Scià, implosa l’Urss, caduto Saddam, tramontata l’era Bush – l’islamismo militante nelle sue varie declinazioni ha espugnato due di quei bastioni, incendia Afghanistan e Somalia, tiene sotto scacco il regime siriano e il ginepraio iracheno, attacca nello Yemen, non molla l’osso libanese. E insanguina il fronte palestinese.In questo contesto, scrive Dan Segre, nasce “la dottrina del soft power turco, che rilancia l’idea di un impero ottomano di cui il ministro degli esteri Ahmed Devutoglu è la mente e il premier Erdogan il cuore”, passando per il ridimensionamento (anche su pressione europea) dei militari, già custodi dello Stato laico, e il rafforzamento del partito fondamentalista Akp “solo a parole ammiratore dei valori occidentali”. Così oggi è Israele che appare accerchiato, di fronte al paventato asse Ankara-Damasco-Teheran (con appendice a Gaza) e senza altre solide sponde, forse nemmeno oltreoceano. Con un ulteriore paradosso. Iran e Turchia hanno costituzioni agli antipodi: una blindata nella sharia, l’altra nella laicità. Ma nelle città iraniane montano tendenze anti-religiose; il contrario nella Turchia profonda lontana da Istanbul. Due regimi opposti con un unico punto in comune: attizzare i sentimenti anti-israeliani per consolidare la vacillante legittimità interna. Al solito, la politica del nemico esterno. E dare addosso agli ebrei si conferma il modo più facile e a buon mercato.Marco Paganoni http://www.mosaico-cem.it/
Etichette:
Abbiamo scelto.....
Boy and girl Haganah members. Tel Aviv, Israel. 1948
L’amicizia perduta tra Ankara e Gerusalemme
L’incantesimo si è spezzato. Le relazioni un tempo idilliache tra i due paesi stanno precipitando, inghiottite dalla svolta islamico-moderata della Turchia e dalla fine delle speranze di entrare in Europa La tensione che caratterizza da tempo i rapporti tra Gerusalemme e Ankara è grave e Israele può fare assai poco per correggere questa situazione’’: questo il preoccupato commento di Allon Liel, ex-direttore generale del Ministero degli Esteri israeliano e prima ancora per alcuni anni console a Istanbul con tuttora buoni legami con l’establishment politico turco.Il commento di Liel appare tanto più amaro se visto alla luce di 60 anni di relazioni tra i due Paesi, cominciate nel 1948, quando la Turchia fu tra i primi Stati al mondo a riconoscere il neonato Stato ebraico.Nella concezione di Ben Gurion la Turchia rientrava in una rete di alleanze periferiche con Israele, che includevano anche l’Iran dello Scià Reza Pahlevi e l’Etiopia di Hailè Selassie, volte ad attorniare un mondo arabo ostile.Per molti anni la Turchia preferì non ostentare le relazioni con Israele, tanto da provocare l’indispettito commento di Ben Gurion: “I turchi si comportano con noi come se fossimo un amante e non un partner in un matrimonio alla luce del sole’’.L’inizio degli anni Novanta, con la fine della guerra fredda e l’inizio del processo di pace israelo-palestinese, indussero il governo di Ankara a decidere di aprire una nuova pagina nelle relazioni con Israele, questa volta alla luce del sole. I rapporti tra i due Paesi conobbero uno sviluppo caratterizzato da una dinamica impetuosa, evidenziato da una fitta serie di accordi, incluso uno di libero scambio nel 1996. Tanto da dare alle relazioni una dimensione davvero strategica. In campo militare la collaborazione tra le due forze armate divenne molto stretta, al punto che l’aviazione israeliana ebbe anche il permesso di addestrarsi nello spazio aereo turco, mentre alle industrie militari israeliane andarono ingenti commesse. Si infittirono inoltre gli scambi commerciali, passati da 200 milioni di dollari nel 1992 a 3,4 miliardi nel 2008, mentre per centinaia di migliaia di israeliani la Turchia diveniva meta turistica preferita, anche per il suo basso costo. Erdogan e i palestinesiNel 2002 la vittoria alle elezioni del partito Giustizia e Libertà (designato dall’acronimo AK), a orientamento islamico moderato, suscitò in Israele i primi timori di un cambiamento nelle relazioni, alla luce dell’aperto sostegno del premier Recep Tayyip Erdogan alla causa palestinese. Dalle critiche, inizialmente sommesse, a Israele si è passati progressivamente ad attacchi sempre più aspri, accentuatisi soprattutto dopo l’operazione Piombo Fuso a Gaza, fino ad arrivare al recente veto turco circa la partecipazione dell’aviazione israeliana a un’esercitazione aerea assieme a Italia e Usa in Anatolia, e alla grottesca accusa del premier turco che Israele avrebbe minacciato di usare l’arma nucleare contro Gaza. E c’è chi sostiene che molto probabilmente nella veemenza degli attacchi di Erdogan a Israele sia presente una forte componente di astio personale. Nuove alleanzeMalgrado le assicurazioni del nuovo ambasciatore turco Ahmet Oguz Celikkol sull’importanza delle relazioni tra i due paesi, è chiaro che queste sono entrate in una fase involutiva. Quello in corso in Turchia è in effetti un riorientamento della politica estera di Ankara nella regione mediorientale. Il Ministro degli Esteri Ahmet Dovutoglu, stretto confidente di Erdogan, l’ha definita una politica “di zero problemi con i vicini’’, di chiusura di conti col passato e che nei fatti si sta manifestando in una serie di intese e di accordi di cooperazione e di rapporti di buon vicinato con Siria, Iran, Iraq, nel recente accordo con l’Armenia di normalizzazione delle relazioni dopo un’ostilità secolare e nel riconoscimento di più ampi diritti culturali e politici alla minoranza curda. Approfittando dell’attuale scarsa assertività della presenza Usa nella regione, la Turchia, che non sembra più nutrire troppe speranze di adesione all’Unione Europea, sembra orientata a svolgere un ruolo di potenza regionale pur restando nella Nato. Egemonia regionale Non a caso infatti Ankara si è avvicinata ai Paesi della regione intensificando con questi le sue esportazioni, salite a 31 miliardi di dollari nel 2008 (sette volte più del 2001). Una politica che non mostra troppo riguardo per gli interessi occidentali e di Israele e che è facilitata dalla progressiva neutralizzazione nella vita del paese del peso delle Forze Armate filoccidentali, che si sono sempre ritenute guardiane della costituzione laica turca.A questo fenomeno si accompagna inoltre l’emergere di una moderna classe dirigente musulmana, con radici culturali in Anatolia, a spese della borghesia laica, aperta e cosmopolita di Istanbul, una classe sociale soprattutto che ha sempre visto nell’Occidente un modello di riferimento. Ma oggi il carisma di Erdogan, il suo gradimento presso l’opinione pubblica turca sono alle stelle. Appare quindi evidente che i cambiamenti in atto in Turchia, dove pure il fenomeno di islamizzazione di una parte della popolazione è sempre più chiaro e dove il partito Ak appare solidamente al potere, sono verosimilmente strutturali e di lunga durata. Non è buon segno per il futuro dei rapporti “strategici’’ israelo-turchi. Che sembrano giunti a una svolta, ahimè non positiva. Un altro nemico da aggiungere alla lista.di Giorgio Raccah http://www.mosaico-cem.it/
Etichette:
Abbiamo scelto.....
Ferruccio de Bortoli
Un giornale sempre più libero - Il rapporto tra i media e Israele
Tornato a dirigere per la seconda volta il Corriere della Sera lo scorso aprile (la prima direzione era stata dal 1997-2003), Ferruccio de Bortoli, 56 anni, da sempre vicino agli ebrei e al mondo ebraico, ci racconta a pochi mesi dal suo insediamento, come la pensa su Israele, il Medioriente, i media, il crescente razzismo.Secondo te i giornali italiani dedicano sufficiente spazio al Medioriente?No, non quanto sia solito trovarne sui quotidiani francesi o inglesi, ma quelli sono paesi con una tradizione culturale diversa, a volte diretta conseguenza di presenze coloniali o della diffusione maggiore della loro lingua. Inoltre la presenza di un’immigrazione integrata e consolidata li porta a dare più spazio agli esteri e alle relazioni con i Paesi di origine e di comunità forti e radicate.Perché in Italia i giornalisti sono così spesso faziosi quando affrontano temi che toccano Israele e questione palestinese?Il racconto giornalistico che è stato fatto nelle varie epoche della questione mediorientale è stato condizionato da fattori politici. L’atteggiamento della sinistra verso Israele è stato per molti anni troppo negativo. La sinistra individuava nella politica di Israele una prosecuzione della politica “imperialistica” degli Usa, la sua lunga mano nell’area. Innegabilmente il pregiudizio era molto forte e ha generato frutti avvelenati come l’antisionismo o una generica antipatia verso Israele e gli ebrei. Certo, il ripensamento della sinistra su Israele è stato tardivo ma approfondito e a mio avviso oggi è definitivo e irreversibile. Anche la destra italiana ha messo in atto un lodevole percorso di riavvicinamento e riconoscimento dei propri errori. Il rapporto della destra con Israele ha finito inoltre per suggellare il riconoscimento dei valori costituzionali e democratici.Per tornare alla sinistra, mi viene in mente Bettino Craxi: da qualche tempo è stato rivalutato come statista e anticipatore di tendenze di fondo della politica italiana e europea. Tuttavia Craxi non fu mai lungimirante, diede troppa attenzione e credito all’Olp. Questo suo atteggiamento ha profondamente condizionato il racconto dei media, spingendolo all’indulgenza verso il mondo arabo, radicando i pregiudizi verso Israele e preparando il terreno al violento antisionismo che sarebbe perdurato per tutti gli anni Ottanta e Novanta. Oggi? Qualche residuo di questa avversione verso Israele permane in alcuni media, ma nel complesso il mondo dell’informazione italiana è molto meno fazioso di quello francese o inglese, i media italiani hanno esercitato un controllo maggiore, compiendo un cammino più libero, specie negli ultimi anni.Eppure la reazione dei media alla guerra del Libano, due anni fa, è stata scandalosa, Israele è stato criminalizzato ancora una volta in toto.Sì, è vero, la cosa fa pensare alla difficoltà di abbattere i pregiudizi e al fatto che la stampa, la gente in generale, è troppo spesso disposta a dare maggior credito agli aggrediti che alle ragioni degli aggressori. Non dimentichiamoci che Israele, pur con i suoi difetti, è l’unica democrazia del Medioriente e che chi fa errori ne paga il prezzo, come ad esempio è successo a Ehud Olmert, premier responsabile di quell’errore strategico che è stata la seconda guerra del Libano.È quindi possibile oggi per un giornalista mantenere equidistanza su questo tema?L’onestà intellettuale dovrebbe essere un pre-requisito di questo mestiere: perciò ciascuno di noi giornalisti deve sforzarsi di non cedere a facili pregiudizi o alla tentazione di far passare per vittime quelli che poi appaiono i veri responsabili del terrore. Dall’altro c’è da dire che gioverebbe a volte un diverso atteggiamento di Israele e delle comunità ebraiche verso le critiche rivolte alla politica israeliana, critiche che spesso vengono subito respinte e bollate come atteggiamento pregiudiziale o addirittura antisemita. Insomma l’eccesso di radicalismo nel difendere la politica di Israele a tutti i costi, rischia a volte di provocare atteggiamenti duri o freddi. Poter criticare la politica di Israele deve esse qualcosa di ovvio e accettato, fatto oggetto di discussione. E’ giusto conservare il diritto e la capacità di critica verso chiunque, Israele compreso, senza ogni volta temere di essere tacciati di coltivare pregiudizio. Io amo Israele, il suo fervore intellettuale, la sua vivacità in quasi tutti i campi del sapere, la sua modernità.Tuttavia, è stato il violento tentativo di delegittimarne l’esistenza che ha suscitato questa difesa a spada tratta...Certo, Israele va difeso fino all’ultimo, il suo diritto all’esistenza non deve mai essere messo in dubbio da nessuno, tanto meno da dittatori sullo stile di Ahmadinejad. Dirò di più, non si dovrebbero nemmeno intrattenere rapporti d’affari con paesi del genere. E non ci sono posizioni terze: con quelli che ne negano il diritto all’esistenza semplicemente non si parla e non si hanno rapporti. Sei mai stato in Israele?Sì, un paio di volte e voglio portarci anche i miei figli: credo che sia il miglior viaggio di formazione che si possa proporre oggi a dei ragazzi. La vita e la realtà israeliana ci portano a riflettere su tanti aspetti della storia recente europea e mediorientale, mette in moto sensazioni e pensieri estremamente stimolanti per la crescita di un giovane. L’ultima volta che venni in Israele fu per intervistare Ariel Sharon: mi colpirono il suo tratto affabile, gioviale e la sua enorme energia. Per l’uomo che è stato, il suo coma oggi è la peggiore delle morti.Perché il Corriere non ha una sezione di Judaica?L’avrà presto e colgo l’occasione di questa intervista per annunciarlo. Un’utile finestra per guardare con più attenzione al mondo e al pensiero ebraico, ma anche a quello delle scienze, delle lettere e a quanto si produce in Israele in termini di eccellenza intellettuale. Oggi, i più grandi ambasciatori di Israele nel mondo sono i suoi scrittori e pensatori.Di ritorno alla direzione del Corriere, pensi di modificarne l’approccio sul Medioriente? Vorrei inserire più analisi, commenti, originalità di approccio. Rispetto al Medioriente ad esempio, penso che meriti grande attenzione anche ciò che accade a livello scientifico e tecnologico. Non solo quindi dare conto della grande ricchezza culturale di Israele ma raccontare anche i mutamenti del mondo arabo, i suoi fermenti interni, le istanze democratiche che sono importantissime e che esistono, ci sono. Il giornalista non deve indossare nessun elmetto, ha il dovere di raccontare la realtà senza farsi condizionare ma seguendo criteri di giustizia e obiettività. Il Corriere è sempre stato storicamente vicino a Israele ma deve essere anche aperto a raccontare come muta la galassia araba in maniera che, ad esempio, posizioni lontane possano trovare un terreno di incontro, dando voce ai dissensi, cercando di smontare i pregiudizi e le false verità, disattivando tutto ciò che appare ufficioso, artificiale, di facciata. Dobbiamo avere come linea guida la ricerca della verità senza piegare i fatti a tesi e letture precostituite. Il Corriere è una casa che accoglie il meglio e che deve cogliere le linee di fondo che attraversano la società e la cultura, linee magari non ancora visibili ma che già serpeggiano sotto traccia.Non sei preoccupato da forme di razzismo che sembrano aumentare ogni giorno di più in Italia?Moltissimo. Vedo crescere forme di intolleranza che apparentemente sembrano risibili e estemporanee ma che se non vengono fermate subito possono produrre effetti gravissimi. Il timore del diverso, la paura verso lo straniero vanno governate e spiegate, razionalizzate e disattivate. Mi ha molto colpito il libro di Gian Antonio Stella, Negri froci giudei &Co, appena pubblicato. Compito dei media è sciogliere i pregiudizi, lottare contro le false paure facendo conoscere agli italiani le realtà di molti immigrati. Il che non significa essere indulgenti contro l’immigrazione clandestina, anzi. La severità ci vuole, pena far diventare l’Italia un paese-ricettacolo delle peggiori forme di criminalità. Ma avere regole severe contro l’immigrazione clandestina consente di avere regole giuste verso l’immigrazione regolare, verso persone che si stanno integrando nella nostra società, che lavorano e che vanno premiate, gente senza cui l’Italia del lavoro oggi non sopravviverebbe. Non dobbiamo scordare che tanti immigrati italiani in altri paesi sono stati oggetto di persecuzioni, ingiustizie, false credenze. Intendiamoci: la cosa non significa costruire una società disordinatamente multiculturale. Io credo che l’unica vera sfida da vincere sia quella di costruire una società ordinata e multietnica, capace di rispettare le diverse fedi e usanze, ma nel rispetto dell’italianità. Non dimenticando che l’italianità ha in sé una grande storia di tolleranza e convivenza tra etnie e fedi diverse e che dobbiamo guardarci dal peggio della nostra Storia, ad esempio, episodi come le Leggi razziali del 1938. Ricordandoci proprio di quella pagina nera: penso a quella domenica pomeriggio del 1944 quando gli ebrei milanesi, cittadini italiani come gli altri, furono portati nell’indifferenza generale al Binario 21 della stazione centrale e instradati verso i campi nazisti. Fiona Diwan http://www.mosaico-cem.it/
Etichette:
Abbiamo scelto.....
Rav Arbib
Il rabbino: mediatore, pastore o Maestro? » Quale modello di Comunità.
Mercoledì 11 novembre, presso la Sala del Bené Berith, si è svolta una bella e affollata conferenza di Kesher, seguita da un animato dibattito. Il titolo della serata era Quale modello di Comunità: un rabbino per la Comunità oppure una Comunità per un rabbino?La serata si è aperta con un’introduzione di Rav Roberto Colombo, responsabile del progetto Kesher, e con un intervento di Riccardo Hofmann, consigliere dell’UCEI con delega agli ebrei “lontani”, già tra gli organizzatori di un bel dibattito in settembre proprio su questo tema. Ma la prima vera chiave della serata è stata fornita proprio dall’intervento del Rabbino Capo, Rav Alfonso Arbib. Dopo avere sciolto il dilemma del titolo, naturalmente in favore dell’alternativa “un rabbino per la comunità”, rav Arbib si è concentrato sul tema di qual è il modello prevalente nella tradizione ebraica. Seguendo alcune interpretazioni, è possibile individuare due precisi punti di riferimento: Moshè ed Aaron. Moshè è un pastore, fermamente intenzionato a seguire il destino del suo gregge - come quando chiede al Signore di risparmiare il popolo ebraico, nonostante il tradimento rappresentato dal vitello d’oro, oppure di fare perire anche lui insieme con il suo popolo.Però Moshè si arrabbia spesso con il popolo ebraico (più di quanto faccia Dio stesso…), sgrida il suo popolo, lo ammonisce. Aaron è invece un uomo di pace, un mediatore tra i litiganti, uno che avvicina i lontani alla Torà e si avvicina a essi. Aaron soffre con la sua comunità e quando gli ebrei si allontanano dalla Torà. Tutti e due credono fermamente nella Teshuvà, nel fatto che il popolo ebraico può sempre cambiare, e tornare sul sentiero giusto. E tutti e due sanno che il rabbino ha il dovere di comunicare con la sua Comunità; a volte con allusioni o discorsi indiretti, ma a volte arrabbiandosi (- e a volte urlare è necessario!-). Ma secondo alcuni commentatori Moshè perde la possibilità di entrare in terra d’Israele non tanto perché vede la sua comunità come un gruppo di ribelli, quanto perché ha perso fiducia nella sua comunità e nella sua possibilità di fare Teshuvà. Naturalmente un rabbino dovrà cercare di coniugare Moshè ed Aaron, e ognuno lo farà a suo modo. Attenti alle sfumatureLa seconda chiave della serata è stata offerta dal dibattito. Affollatissimo e serrato, a cui hanno partecipato molte tra le più di 100 persone presenti. Uno dei temi ricorrenti è stato certamente quello di “chi è ebreo” e delle conversioni: dai matrimoni misti, ai figli di questi matrimoni, alle differenze esistenti tra i criteri halachici e la legge israeliana del ritorno; ma a questo si sono mischiati altri temi, dalle varie sfumature dell’ebraismo “laico”, o comunque non religioso, ai concreti rischi di scomparsa delle piccole comunità, alle sfide portate alla comunità italiana dalle nuove comunità cosiddette Reform. Un intervento dal pubblico ha preso le mosse dal personale modello di rabbino che è stato costituito a Milano in questi anni dallo stesso rav Arbib. Un rabbino evidentemente aperto al dialogo e all’ascolto della sua Comunità, anche di chi si pone inizialmente su un terreno di scontro o comunque di grande diversità. Un rabbino che crede nel non dover perdere mai la propria serenità, aiutato in questo da un tratto di personale bonomia. Tuttavia una delle rare occasioni in cui rav Arbib si è recentemente irritato in pubblico è stato a proposito di due temi molto attuali e controversi per la nostra Comunità: le conversioni e i Reform.La domanda per rav Arbib è stata allora: perché? Perché questi temi hanno scalfito in qualche modo questo tratto di serenità dialogante così caratteristico del suo rabbinato? Un’altra domanda è partita da una famosa, vecchia intervista a rav Elio Toaff, in cui l’intervistatore aveva chiesto quali e quante fossero, a parere di rav Toaff, le conversioni che andavano fatte. La risposta di rav Toaff era stata sorprendente: non “quelle giuste”, come sarebbe forse stato lecito aspettarsi; ma semplicemente “il minor numero possibile”. E quale sarebbe ora la risposta di rav Arbib? Tra tutte le domande del pubblico, rav Arbib ha scelto queste due come perno del suo lucidissimo intervento di risposta, che da solo valeva la serata.Quello delle conversioni è un argomento delicato, che lo preoccupa molto, ha dichiarato, al punto da non riuscire a dormirci la notte. Prima di tutto, deve essere chiaro che il tema delle conversioni non va considerato come un tema del dibattito politico comunitario; infatti la conversione è sostanzialmente una questione personale tra chi vuole convertirsi e il rabbino. Come tutti sanno vi sono regole certe per la conversione, regole di Halachà, ma non vi può mai essere certezza né sul percorso né sull’esito. E se è vero che le conversioni sono un problema che riguarda la Comunità, lo sono in quanto unione di tanti problemi individuali da risolvere individualmente, ma non come problema collettivo da risolvere magari politicamente. Se qualcuno crede che ci dovrebbe essere una risposta collettiva, politica, intesa magari nel senso di una sorta di “sanatoria” collettiva, semplicemente rav Arbib non è disponibile a prendere la cosa in considerazione. Senza contare che secondo lui, le conversioni non aiuterebbero a risolvere né il problema dell’assimilazione né il problema del calo demografico delle nostre comunità.Rav Arbib ha chiarito inoltre in modo appassionato che personalmente egli stesso crede molto nelle conversioni, quelle giuste e convinte, perché esse rappresentano una grande occasione di arricchimento della Comunità; al punto che la sua risposta su quali conversioni si debbano fare sarebbe stata sensibilmente diversa da quella di Toaff.Ma allo stesso tempo, semplicemente per rav Arbib è impensabile agire in modo contrario alla Halachà o in modo contrario alle sue convinzioni. Egli ha tenuto infine a ricordare a tutti l’importante mitzvà della Ahavat Hagher, l’amore per il convertito, che nella Bibbia è ripetuta per ben 36 volte, e che tutta la nostra Comunità dovrebbe imparare a mettere veramente in pratica. Quanto alla questione dei Reform, rav Arbib ha chiarito che a suo giudizio essi sono una risposta sbagliata e pericolosa ai problemi dell’ebraismo moderno. L’idea più pericolosa della riforma, a suo parere, è quella che sia necessario adattare l’ebraismo alla realtà contemporanea (non soltanto “tenere conto” della realtà, il che è plausibile, ma addirittura adattarvisi…). In questo senso, ha concluso, ricordiamoci che anche il Cristianesimo è una sorta di ebraismo riformato. Rav Arbib ha concluso poi la serata nel solco ideale di Aaron, ribadendo il suo obiettivo: avvicinare la Comunità tutta alla tradizione ebraica e alle mitzvot: portando gli ebrei al Tempio, fornendo ai ragazzi ebrei una scuola ebraica, e ricordando che i matrimoni misti devono continuare a essere percepiti da tutti come un importante problema comunitario, senza cedere alla tentazione dell’assuefazione.Guido OsimoMilano http://www.mosaico-cem.it/
Etichette:
Abbiamo scelto.....
Vi comunico che uscirà in questi giorni la quarta Ristampa di Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti... Proedi Editore. E' l'unico dono possibile per I 20bambini di Bullenhuser Damm, un ricordo per Channukà.Ma parteciperete ad un progetto umanitario acquistando questo "piccolo libro". Un piccolo dono alla vita dei tanti bambini di Gugulethu. Maria Pia Bernicchia
www.proedieditore.it/20bambini
http://www.laportadellamemoria.blogspot.com/
www.proedieditore.it/20bambini
http://www.laportadellamemoria.blogspot.com/
Etichette:
L'angolo della lettura
domenica 6 dicembre 2009
Istituto Weizmann
Ritornano le Giornate Gastronomiche Sorrentine fra tradizione e innovazione
"In televisione ci sono troppi programmi di enogastronomia e spesso si fa fatica a rendersi conto delle vere eccellenze; un utente non molto esperto rischia di confondere un grande chef con un cuoco della domenica. ". Queste le parole del direttore di Raiuno Mauro Mazza tra gli ospiti del "Premio Villa Massa", kermesse voluta da Stefano Massa, svoltasi nella suggestiva cornice del Teatro Tasso di Sorrento. ............. Un incontro che ha offerto molti punti interessanti di riflessione e dibattito e a cui ha fatto seguito in serata, all'Grand Hotel Excelsior Vittoria un evento nell'evento. Per la prima volta in passerella Israele e Palestina – ripresi anche dalle telecamere di Al Jazeera - si sono dati simbolicamente la mano. I due popoli, da sempre in conflitto tra loro, per una sera si sono incontrati su uno stesso palco, uniti dall'alta moda, in occasione delle "Giornate Gastronomiche Sorrentine". Gli abiti dello stilista palestinese Jamal Taslaq e quelli dell'israeliana Galit Levi, hanno sfilato insieme grazie alla collaborazione di Massimiliano Costabile. Un incontro storico, simbolo del leit motiv della kermesse sorrentina che ha puntato i riflettori sul tema del confronto e della conoscenza. "Speriamo di dare un importante messaggio di pace – ha dichiarato lo stilista palestinese Jamal Taslaq - ci vuole poco per amare e vivere insieme. L'Italia mi ha accolto giovanissimo e mi ha messo in condizione di realizzare il mio sogno. Questa terra è un grande Paese e sono contento che il nostro messaggio di pace parta proprio da qui e dalla splendida Sorrento". ........L'evento gode del patrocinio del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, della Regione Campania, Assessorato all'Agricoltura, del Comune di Sorrento, dell'Unioncamere Campania oltre che del contributo del gruppo "Ferrarelle", Banco di Napoli, e della collaborazione dell'Ascom Sorrento. Domenica 6 Dicembre 2009, http://www.casertanews.it/
Etichette:
Curiosità
Scoperto nuovo tipo di supernova
Proviene da esplosione di nucleo di circa 100 masse solari
(ANSA) - PISA, 4 DIC - Scoperto un nuovo tipo di esplosione stellare: e' una supernova scoperta in una galassia molto distante grazie alla sua insolita luminosita'. La scoperta e' stata fatta da astronomi della Scuola Normale Superiore di Pisa, del Weizmann Institute for Science di Rehovot in Israele, delle universita' di Belfast e di Berkeley. Gli scienziati hanno eseguito le osservazioni con vari telescopi e scoprendo che la supernova proveniva dall'esplosione di un nucleo stellare di circa 100 masse solari.
Etichette:
Curiosità
Mo: Shalit, scambio in 14 giorni
Barghuti incluso, lo avrebbe detto Netanyahu
(ANSA) - TEL AVIV, 5 DIC - La liberazione di Ghilad Shalit, il militare israeliano prigioniero di Hamas da oltre tre anni, potra' avvenire entro due settimane.In cambio, verranno rilasciati un migliaio di palestinesi detenuti nelle carceri di Israele: compreso Marwan Barghuti, il popolare leader di Fatah condannato a 5 ergastoli per le violenze della seconda Intifada. Lo ha affermato il deputato israeliano Daniel Ben Simon, sulla base di anticipazioni da lui attribuite al premier Netanyahu in persona.
Etichette:
Abbiamo scelto.....
Una delle valli di Gerusalemme
DISFUNZIONE ERETTILE: FUNZIONA TERAPIA ONDE URTO
Si puo' stimolare la crescita di nuovi vasi sanguigni
(AGI) - Washington, 4 dic. - Niente pillole blu o gialle. Per vincere l'impotenza maschile e' necessaria una terapia d'urto. Nel vero senso della parola. Secondo Yoram Vardi, andrologo italo-israeliano del dipartimento del Rambam Medical Center di Haifa (Israele), la soluzione migliore contro la disfunzione erettile e' colpire il pene con onde d'urto. Le sue teorie sono state spiegate da un articolo pubblicato da LiveScience. "Possiamo davvero invertire i problemi di erezione con questo metodo", ha detto. "Il Viagra o il Cialis - ha aggiunto l'andrologo - non sono una cura perche' quando il farmaco esaurisce la sua azione, il problema ritorna". Su una serie di studi condotti sugli animali, Vardi ha osservato che con le onde d'urto e' possibile stimolare la crescita di nuovi vasi sanguigni che si vanno ad aggiungere a quelli esistenti. Questo ha convinto Vardi e i suoi colleghi ha condurre uno studio anche sugli esseri umani affetti da disfunzione erettile causata da una riduzione del flusso sanguigno nel loro pene. "I problemi cardiovascolari - ha detto l'andrologo - sono responsabili dell'80 per cento della situazione dei pazienti con disfunzione erettile". Gli studi finora condotti sono soltanto preliminari ma danno buone speranze per "per risolvere il problema senza la necessita' di farmaci". Lo studio ha coinvolto 20 volontari di eta' media di 56 anni affetti da disfunzione erettile di grado lieve o moderato da almeno tre anni. A ogni sessione, un dispositivo simile a un mouse del computer ha applicato onde d'urto in 5 punti diversi del pene. "Sono onde shock a bassissima energia", ha precisato Vardi. Ogni punto del pene ha ricevuto all'incirca 300 onde d'urto in tre minuti. Sono state effettuate due sedute a settimana per 21 giorni, seguite da tre settimane di riposo. Ebbene, i ricercatori hanno registrato un miglioramento in 15 uomini su 20. "Non abbiamo ancora riscontrato alcun effetto indesiderato", ha aggiunto Vardi che ha inoltre precisato: "Questa non e' una cura per tutti". I ricercatori hanno infatti selezionato volontari che soffrivano di disfunzione erettile causata da una riduzione del flusso sanguigno e non da problemi ai nervi o ai muscoli. I ricercatori stanno ora effettuando uno studio piu' ampio coinvolgendo anche altri uomini per calcolare eventuali effetti placebo. "Questo e' solo l'inizio", ha detto Vardi. "Abbiamo bisogno di capire meglio - ha continuato - cio' che sta succedendo. Vogliamo anche vedere quanto tempo dura la risposta alla terapia. E' per sempre, un anno, due anni, sei mesi? Sappiamo per ora che dopo tre mesi funziona". .
Etichette:
Curiosità
Iscriviti a:
Post (Atom)