domenica 16 marzo 2008

il diario di viaggio di Luisa

Neghev - Masada - Palazzo di Erode



Un viaggio di tante emozioni - Trieste, 4 marzo 2008

Lo guardo con un pizzico d’orgoglio il bel foglio-cartoncino con la sua menorah circondata dalle foglie di olivo, simbolo dello Stato di Israele, la sua decorata intestazione piena di immagini, che sfumano l’una nell’altra, di monumenti o paesaggi caratteristici del Paese e l’elegante scritta in armonioso corsivo: offerto in segno di Riconoscimento a me, nome e cognome, per essere venuta in Israele per la prima volta e, per questo, nominata Ambasciatore Dell’Amicizia Verso Israele.
Sì, certamente, lo sono sempre stata entusiasta di questo popolo cui mi legano profondi richiami familiari, che determinano questo mio senso di appartenenza, ma era un legame dello spirito e della immaginazione, ora è diverso; ora ho visto e so: Israele è un Paese eccezionale che concretamente opera, secondo la splendida prospettiva espressa da Ben Gurion con paradossale e insieme incontestabile evidenza: “Chi non crede nei miracoli non è realista”. Lo poteva ben dire lui, un ebreo, in questo Stato, che Egli aveva contribuito, con una testardaggine pari soltanto alla sua tenacia, a fondare, che, anche solo limitandosi all’osservazione del kibbutz Sde Boker, in cui egli risiedeva, può proprio apparire una realtà miracolosa: fiori, aiuole erbose, alberi da frutta, palmeti rigogliosi, persino acqua gorgogliante di fontana e tutto ciò in mezzo ad una sconfinata landa completamente glabra, una distesa di sassi e terriccio di un monotono colore giallognolo, prevalentemente privo di sfumature. E’ la prima stupefacente immagine che Israele mi ha lasciato: un deserto sonnacchioso, che sembra minacciato da tutta quella improvvisa vegetazione, fresca e ben sistemata, che sembra lì da chissà quanto tempo e invece, noi lo sappiamo, è stata sviluppata da pochi anni, risultato di una progressiva seminazione di piante via via sempre più resistenti e meglio radicate e radicabili in quel terreno inizialmente ostile, che viene domato attraverso lo studio della sua natura, partendo dai suggerimenti delle descrizioni bibliche per impiantarvi quelle piante che ivi vengono nominate perché evidentemente allora presenti. Il risultato di queste ricerche e sperimentazioni è che Israele è l’unico paese al mondo in cui il deserto si ritira contro la funesta realtà del suo avanzamento in tutti gli altri luoghi della terra.
Ma non è solo questo imperiosa e grandiosa, oltre imponenti spalti, si fa spazio nella mia mente, circonfusa da quella sfavillante luce mediterranea, che si ammira anche in Sicilia, d’inverno, e qui si riconosce analoga, l’immagine prima di Gerusalemme, che si erge, potente, città di pietra bianca, quella che la caratterizza per l’omogeneità del suo colore e con la quale soltanto si può costruire al suo interno.
Che forte emozione quell’impasto di profili di casamenti moderni, alti, più spesso dal tetto a terrazza che mi danno l’impressione di una città, comunque, orientale e, subito, misteriosa e seduttiva, anche per l’alternarsi di cupole, minareti, arcate a tondo e ogivali, torri e campanili. Attorno a quelle superbe mura, ho visto, per influsso della mia univoca cultura occidentale, le fluttuanti bandiere, le lance e gli archibugi, le corazze e gli elmi, nella enfatica e trionfante descrizione delle armate crociate che il Tasso ci trasmette:”…con raggi assai ferventi e in alto sorge, ecco apparir Gerusalem si vede, ecco additar Gerusalem si scorge, ecco da mille voci unitamente Gerusalemme salutar si sente …” (G.L.,III,3).
Reazione impulsiva, dettata da sedimentate immaginazioni, che si riveleranno subito inesatte, già nella passeggiata della prima sera, quando, ancora incredula di essere in quel luogo prestigioso, scoprivo grandi e trafficate arterie e viali metropolitani, circondati da palazzi e grattacieli, sedi di Istituzioni Statali o Finanziarie o Scientifiche, dall’architettura avveniristica e da grande capitale moderna, ma mi riservava immediato stupore, quando mi infilavo in un illuminato e affollato slargo che andava declinando in una via, letteralmente contrappuntata di negozi, bar, locali di indefinibile natura, vivacissimi, colorati, con arredi talora rutilanti talora piuttosto polverosi e scalcinati, con vetrine splendenti o assolutamente scure e disordinate, con ogni tipo di merci, da pregiati gioielli a paccottiglia globalizzata come portachiavi con insegne sportive o...addirittura di ispirazione religiosa, sia ebraica che cristiana. Ero capitata nella via –mercato Ben Yehuda, il grande linguista che aveva costruito e fatto adottare l’ebraico nazionale, come il primo collante del nuovo Stato, a dimostrazione, anche espressiva, di una nazione millenaria , che in questa terra trovava le sue radici originarie.
Si verificano qui sensazioni estremamente fluttuanti nel tempo e nello spazio: i tuoi occhi non hanno ancora cessato di ammirare il luccichio dorato di una cupola di cappella o di moschea o lo svettare di un minareto che lo sguardo deve sostare e ammirare la sobria eleganza di una sfilata di colonne che appartenevano al cardo costruito dai Bizantini , non seguendo quello voluto da Adriano, quando ordinò la sua nuova Gerusalemme, cambiandole addirittura nome, a modello del suo prenome, Aelia Capitolina. Ma già deve volgersi all’incredibile sfilata di fogge d’abiti e di copricapo che ti fanno sentire nel pieno di un antico schtetl oppure, per gli svolazzi chiari di tessuti di cotone, ti fanno pensare ad un accampamento arabo. Vieni affascinato dalla concentrata lettura di un libro sacro da parte di un uomo, appoggiato all’antico muro di bianca pietra, in tunica e calzoni bianchi, coperti da un pesante cappotto nero così come nero, a larga tesa, è il cappello posto sulla cima del capo. ai lati del quale sfuggono tutti arricciolati due vigorosi peots. E le donne, con il capo avvolto da fazzoletti o da cappelli di fogge antiquate, o portano pesanti e lunghe gonne su gambe pesantemente calzate, che arretrano dal Santo Muro, con lento e rispettoso passo, nello striminzito settore loro riservato al Cotel, il muro del pianto, occupato in tutta la sua restante ampiezza, da uomini che , dopo l’abluzione rituale delle mani, si accostano a quel mistico simbolo, con un libro sacro in mano, oscillando in movimento ripetitivo, sprofondati in assorta preghiera.
Però si è sbalzati, ma non strappati, da questi legami al passato, che non viene dimenticato, anzi, si intreccia e permea, seppur come spinta e stimolo al procedere, in un futuro altamente significativo, quando ci si trova di fronte al monumentale edificio della Corte Suprema, opera dei due architetti, Ram Carmi e Ada Carmi Melamed. Sin dalla prima soglia, entriamo in un corridoio in cui sono affrontate due pareti, l’una di pietra bianca di Gerusalemme, simbolo del passato, l’altra, di un bianco smagliante, simbolo di un futuro ancora da realizzare. Ma anche l’alternarsi continuo, armonioso e sapiente di linee curve che si intersecano a linee rette, è una allegoria su come le leggi devono essere rette e i giudizi adeguati e attenti alle circostanze dei fatti, e l’abbagliante luce, che allude alla rettitudine e all’ampiezza di visione di chi giudica, che entra da splendide vetrate, da cui si ha una visione a 360 gradi del verde, folto e ricco, del parco, prodigiosamente tutto nato grazie all’irrigazione a goccia, su terreno desertico, con un intero settore fiorito di rose provenienti da tutto il mondo. Il vasto ambiente di accesso alle aule delle varie Corti di giudizio risponde anch’esso a precisi criteri ispiratori di pensieri di accoglienza di chiunque faccia ricorso ai vari tribunali, anzi, le aule sono concepite come ambienti di strutture architettoniche tali da richiamare i rispettivi luoghi sacri delle tre religioni del Libro, per mettere a proprio agio ebrei, cristiani, musulmani.
In questa severa impostazione altamente simbolica si inquadra il grande Museo della Shoah, lo Yad Vashem. Non può essere descritta la tremenda impressione che si prova ad iniziare a procedere per una sorta di strada leggermente in discesa, che si va restringendo man mano si avanza, mentre i tuoi occhi sono attratti e inorriditi alle immagini di tutte quelle persone, martoriate nei corpi, estenuate nelle anime , con degli occhi profondi e dolenti, che pongono una costante, sommessa domanda: perché? O essa è, piuttosto, dentro di te, che ti senti coinvolto e colpito da quell’ immenso dolore. Là, raggiungi l’annichilimento, nella Sala cilindrica dell’Archivio, tutta circondata da mensole su cui sono allineati, tutti uguali e gonfi di carte ingiallite, i dossier, con i documenti di tutte quelle vite a cui corrispondono le centinaia e centinaia di foto di uomini donne vecchi bambini che ti guardano dalla volta di una cupola interna, sovrastante una vasca piena d’acqua, nella quale quei volti si specchiano, moltiplicandosi all’infinito, per dirci che sono a noi uniti in una solidale catena. Proprio come le fiammelle che si immillano nelle tenebre profonde, che pur ne vengono squarciate, nel Memoriale dei Bambini, per ricordarli, ancora e sempre, nei loro nomi, nelle loro brevi vite spezzate.
In questo sorprendente Paese è straordinariamente facile entrare e uscire nella Storia perciò si può essere partecipi delle sofferenze novecentesche senza sentire lontana la tenace resistenza dei ribelli Zeloti, che, asserragliati nella rocca di Masnada, nel 73 d.C., hanno preferito rinunciare alla vita, dopo una strenua resistenza durata, oltre ogni attesa, per tre anni, all’assedio di ben 10.000 soldati romani, disseminati negli otto accampamenti di accerchiamento. Una poderosa rampa da essi costruita nell’unico passaggio, indifendibile dall’interno della fortezza, ha consentito la presa della rocca ma non dei suoi difensori che si suicidarono, lasciando intatte le riserve di cibo per dimostrare che non per fame erano morti, ma per un superiore amore per la libertà. Ancora oggi, le reclute dell’esercito israeliano, in loro ricordo, giurano al grido: Masada non cadrà una seconda volta!
Ma ci attendono continue altre sorprendenti scoperte di luoghi come Bet a lam, la Betlemme del Bambin Gesù, in cui una stella d’argento, affondata nella grotta sotto la Chiesa della Natività , vorrebbe segnare il punto dove avvenne quella nascita portentosa. Nell’ampio e monumentale interno dell’ antico edificio , costruito da Costantino, per volontà della madre Elena, poi riedificato da Giustiniano, e ornato dai Crociati con mosaici, ancora parzialmente conservati, si entra per la bizzarra Porta dell’Umiltà, abbassata in periodo ottomano per non farci entrare i cavalli, che costringe i visitatori a piegarsi a 90° per entrare. Qui siamo in terra sotto amministrazione dell’Autonomia Palestinese dove, seppure sono evidenti gli sforzi di qualche miglioramento, c’è una palpabile diversità di condizioni di vita, molto più povera e arretrata rispetto a quella che appare a pochi chilometri di distanza, nella grande progredita moderna Gerusalemme.
Ma ancor più straordinari e certamente quasi incredibili mi appariranno la vita, l’ambiente naturale, la fauna, la flora, l’organizzazione sociale che scoprirò quando conoscerò i kibbutz di Mashabim, di Neot Semadar o di Sde Boker, quello in cui è vissuto il personaggio che mi ha più profondamente entusiasmata, il fondatore dello Stato di Israele, quel Ben Gurion che, con voce vibrante anche se trattenuta, ha annunciato al trepidante popolo degli ebrei la nascita dello Stato d’Israele e ha fatto rivivere anche a noi, visitatori a 60 anni di distanza di quella Sala dell’Indipendenza di Tel Aviv, quella intensa emozione, attraverso la registrazione radiofonica. Conosceva 9 lingue, che aveva imparato per leggere in originale libri di narrativa o testi tecnici, perché non si fidava delle traduzioni! Il suo spirito deve molto compiacersi nel poter ammirare quanto è stato realizzato dai suoi conterranei: quei pendii verdeggianti di erba, alberi, cespugli, zone fiorite o coltivazioni sterminate di frutteti o vigneti o agrumeti o solchi protetti da coperture per far crescere in condizioni protette primizie di ogni genere in ordinatissime serre. Un impegno di lavoro in continua sperimentazione e con risultati sempre migliori, che si decide insieme, in riunioni comuni, nel più autentico spirito del kibbutz, come ci spiega il preciso ed entusiasta responsabile del rinnovato complesso di Neot Semadar, di cui ci mostra il Centro di Aggregazione, appena inaugurato, una specie di palazzo delle meraviglie, di un favolistico color rosa, ornato di stucchi e volute, e dotato di un complesso sistema di areazione e refrigerazione, che sfrutta l’aspirazione dell’aria calda esterna, ne sottrae l’umidità facendola passare per una sorta di camino, e la diffonde nei vari locali, rinfrescandoli.
E attorno a queste frondose zone, si scorge un paesaggio accidentato di corrugamenti sassosi e totalmente brulli, solcati da una bianca e tortuosa strada assai poco trafficata da veicoli motorizzati, ma non disdegnati da gruppi non sparuti di notevoli esemplari di…stambecchi, dalle inconfondibili corna arcuate e puntute, un’altra bizzarria di questi luoghi. Attraversiamo il deserto del Negev, che si estende per i 2/3 dello Stato d’Israele e che, dico io, se questi indomiti coltivatori di terreni impossibili potessero applicare i loro ingegnosi sistemi di desalinizzazione della terra, anche con lavaggi degli strati sotterranei per ridurne la salinità, credo che, nel giro di una trentina d’anni, riuscirebbero a rendere produttiva anche questa desolazione.
Ma temo che non sarà così, purtroppo. Il terrorismo esercitato attraverso i fanatici suicidi, che si fanno esplodere nei punti più esposti anche perché tanto frequentati, e colpiscono la popolazione inerme, riescono nel loro duplice intento, la destabilizzazione di ogni tentativo di instaurare la pace e la diffusione dell’odio e dell’intolleranza dell’altro, condizione forse ancora più perniciosa perché sprofondata nel tessuto più interno della società, quindi quasi inestirpabile, tanto è profondamente radicato.
Quando si arriva all’estremo punto meridionale, sulla riva che dà sul Mar Rosso, ci troviamo in un punto in cui si affacciano 4 Paesi: Egitto, Arabia Saudita, Giordania ed Israele e, se si arriva di sera, si ammira una sfavillante sequenza di luci di due città che stanno affrontate e appartengono a due Paesi diversi, ma quasi si toccano, la giordana Aqaba e l’israeliana Eilat, accomunate dai fondali corallini del Mar Rosso, di un intenso blu e di cristallina limpidezza, con una flora sommersa e una fauna ittica dai rutilanti colori vivacissimi e fantasmagoriche forme. Qui, se si naviga con la barca dal fondo trasparente, da cui si può ammirare lo spettacolo dei vari fondali, sembra distantissimo e irreale lo scontrarsi degli uomini; qui tutto sembra radioso e sereno, inattaccabile da qualsiasi perturbazione.
Con queste luci azzurrine ed il movimento sinuoso e fluttuante degli innumerevoli colonie di pesci e le seducenti concrezioni di specie coralline dai nomi favolosi come le alcionarie, le acropore, i delicati ventagli di mare, mi piace concludere questo mio itinerario con l’auspicio di poter essere immersi in un mondo di bellezza e di poter godere, in pace, dei tanti doni di queste terre, cui auguro, con tutto il cuore, il mio beneauspicante Shalom!

Luisa

2 commenti:

bed and breakfast roma ha detto...

bellissimo racconto

Chicca Scarabello ha detto...

Bene, grazie, vieni con noi in Israele e sperimenterai le stesse emozioni Chicca