giovedì 12 marzo 2009

Passaggio in Yemen


La seconda parte del mio diario di viaggio sullo Yemen è dedicata agli ebrei e a ciò che resta dell’ebraismo yemenita. Forti di libri letti sulla antichissima e affascinante comunità ebraica yemenita, di qualche cena a ristoranti yemeniti in Israele, nonché di confuse notizie carpite da Internet e volenterosi ricercatori su presunti superstiti ebrei in villaggi a nord di Sana’a e nel governatorato di Sa’dah, io e le mie tre compagne di viaggio appena arrivati a Sana’a ci siamo armati di pazienza e siamo corsi alla shurta sahafiya (meglio nota come tourist police) per avere il permesso di andare, accompagnati da un autista yemenita, a Ra’idah, un ameno villaggio a nord della capitale dove le notizie in nostro possesso situavano il grosso degli ebrei yemeniti rimasti. Dopo aver scovato tre poliziotti sdraiati per terra a masticare qat, aver telefonato all’autista, coinvolto un poliziotto come traduttore telefonico dall’arabo all’inglese, otteniamo l’agognato permesso per Ra’idah. Inutile il tentativo per Sa’dah, zona tribale per la quale ci sarà negato il permesso.Al mattino alle otto arriva l’autista che, subito, si convince che noi siamo quattro ebrei alla ricerca di propri confratelli dispersi. A nulla varranno i nostri tentativi di parlare arabo, sviare la conversazione eccetera. Ad ogni posto di blocco, l’autista ci presenta (più o meno) come ‘arba italiyyin o meglio: yahud. Evvai!!! Arriviamo a Ra’idah, salutiamo l’autista che va a pranzare per i fatti suoi e noi, subito, notiamo un bambino con le pe’ot, i riccioli degli ebrei ortodossi. Lo seguiamo e in men che non si dica ci troviamo in casa di una famiglia (moooolto allargata) di ebrei yemeniti, uomini, un vecchio pazzo che protesterà per l’assenza delle pe’ot a lato delle mie orecchie. Per farla breve, armati di registratore vocale e di fotocamere digitali, il nostro animo di antropologi e ebraisti prende il sopravvento e iniziamo a fare domande sulle sinagoghe, quanti sono, dove sono, se hanno rapporti con Israele, di cosa vivono, quali sono i rapporti coi vicini musulmani, le feste, come fanno a mantenere la kasherùt e molte altre domande. La conversazione, metà in ebraico, un po’ in arabo e ogni tanto col soccorso estremo dell’inglese, è alquanto bizzarra. Gli ebrei di Ra’idah parlano un ebraico talmente arabizzato da risultare a tratti incomprensibile, in più spesso si contraddicono tra loro (ad es. su quanti ebrei siano rimasti, nonché su altri argomenti). Qualche tazza di té dopo, un ebreo sulla quarantina che da subito era sembrato il più propenso al dialogo si offre di portarci al vecchio cimitero ebraico. Inizia un lento viaggio in jeep col nostro autista ormai definitivamente convinto di avere adesso addirittura cinque ebrei sulla sua macchina. Dopo aver sbagliato strada tre o quattro volte, arriviamo ai piedi di alcune montagne, in mezzo a campi coltivati e qualche rara casupola. Poi, poco più in là, nel bel mezzo del nulla: un campo di pietre bianche, quasi tutte rotte, mezze interrate, con erba e sterpi dappertutto. Io e la mia guru universitaria abbiamo un tuffo al cuore: è il cimitero. Ci avviciniamo e increduli riusciamo a leggere due lapidi, una soprattutto è piuttosto ben conservata: Rachel bat Avraham, Rachele figlia di Abramo. Sono in Yemen, sto parlando ebraico e mi trovo di fronte ad una tomba ebraica di chissà quale epoca. Se è un sogno, non svegliatemi. Ma il meglio deve ancora venire.Ancora storditi da quanto visto, torniamo a Ra’idah e da lì il nostro Yosef/Yusuf ci accompagna al villaggio accanto, dove c’è un’altra sinagoga (anch’essa però è chiusa perché il detentore delle chiavi è assente) e, soprattutto, due piccole scuole ebraiche per bambini e bambine. Arriviamo in un cortile inondato dal sole e, dietro una porta, in una stanza piena di polvere, troviamo una classe di nove o dieci bambine ebree che salmodiano in ebraico guidate da una maestra. Velate e/o con le colorate cuffie della tradizione ebraico-yemenita, ripetono parole in ebraico. Alle pareti l’alfabeto ebraico, libri che arrivano da Israele o con sovvenzioni di associazioni ebraiche americane. La scuola maschile è poco distante, e lì una classe di ragazzini con le pe’ot ripete altre parole in ebraico. Il maestro, da buon yemenita, mastica qat.Dopo molti shalom, migliaia di barukh ha Shem (”benedetto il Signore”), todah (”grazie”) eccetera, totalmente abbacinati da quanto visto, fieri delle nostre foto, filmati e registrazioni, torniamo a Sana’a dopo il tramonto.In Yemen sono rimasti qualche centinaio di ebrei (200, 400: non si sa con precisione). Alcuni a Sa’dah, a Ra’idah, altri a Sana’a (dove esiste ancora un vecchio quartiere ebraico, con stelle di David su alcuni edifici e qualche ricordo carpito dagli abitanti più anziani, nella zona di El-Gah che abbiamo visitato qualche giorno dopo). Gli ebrei che abbiamo incontrato, tra i venti e i cinquant’anni (bambini esclusi), sembrano vivere in modo piuttosto semplice, isolati dal resto della comunità non ebraica, limitati in molte cose da proibizioni governative. Alcuni vogliono emigrare in Israele e raggiungere parenti a Beer Sheva, Ashdod o negli USA. Parlano e scrivono in ebraico, spesso parlano arabo yemenita ma non sanno leggerlo perché è loro vietato frequentare scuole altre da quelle ebraiche del villaggio.Fino agli anni ‘50 gli ebrei yemeniti erano più di cinquantamila, oggi quasi tutti in Israele. Il futuro degli ebrei yemeniti sembra irrimediabilmente segnato, andando ogni giorno di più in direzione dell’estinzione. Eppure la diaspora yemenita è una delle comunità più antiche e affascinanti della storia ebraica. Una storia che inizia con re Salomone e la regina di Saba e attraversa i secoli per giungere fino a noi negli occhi pieni di speranza di dolcissime bambine ebree che ripetono preghiere in ebraico, così come facevano le loro madri e le loro nonne, e così all’indietro nel tempo fino a quella Rachel bat Avraham (e mi sia concesso dire: zichronah li-vrachah, “sia benedetta la sua memoria”: e che sia davvero benedetta, se nel 2007 io ho potuto leggere il suo nome su una lapide semi distrutta) che, oggi, riposa in un cimitero abbandonato e ignoto a tutti, ai piedi delle alte montagne dello Yemen. Dario, 4.12.07 http://sanpolo2035.wordpress.com/

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